Qualche tempo fa, Vincenzo faceva una riflessione su quei luoghi
in cui ci troviamo a capitare per caso e che suscitano in noi un
interesse, a volte immediato, altre volte “successivo”, che ci spinge
a tornarci di nuovo.
Il mio “amico d’infanzia” ha denominato questi posti i “Porti nelle
nebbie”, una definizione che mi è piaciuta subito, prima di tutto
perché mi ricorda il titolo di uno dei più bei romanzi di George
Simenon, “Maigret e il porto delle nebbie”, in secondo luogo
perché, man mano che andava sviluppando il suo racconto, mi
conquistava, proprio come mi hanno sempre conquistato i libri con
Maigret protagonista. Se non sapessi che Vincenzo non è un
grande appassionato di letteratura francese a sfondo psicologico-
poliziesco potrei pensare che nel narrare certi episodi sia stato
influenzato da tali letture, ma conoscendo bene i suoi gusti posso
garantire l’assoluta autonomia ed originalità dei suoi scritti. Trovo
eccellenti le descrizioni di locali poco conosciuti, spesso isolati,
ambienti semplici con poche concessioni ad elementi “moderni”,
varia umanità che si muove quasi al rallentatore. In effetti
sembrano proprio le atmosfere in cui ama trovarsi, pigramente, il
vecchio Maigret: il massiccio commissario entra, osserva con
calma la situazione, si muove lentamente, quasi a non voler
disturbare l’atmosfera del luogo, ordina qualcosa da bere, si siede,
si guarda intorno, ben presto si trova perfettamente integrato con
il resto dell’ambiente.
Ma è tempo di terminare le mie considerazioni personali e di
lasciorvi in viaggio con Lorino.
(ndr)
C’è stato un lungo periodo della mia vita in cui ho navigato come i
natanti nella nebbia. Senza punti di riferimento, senza carte
nautiche e senza bussola. Un periodo lungo, anche angosciante,
ma che mi ha dato un’esperienza di vita che non avrei mai potuto
imparare diversamente.
In questo navigare a vista mi sono imbattuto senza esserne troppo
convinto in quelli che io chiamo I PORTI NELLE NEBBIE.
Quando si procede senza un programma prestabilito e senza
particolari attese per il futuro, si comincia a prendere in
considerazione una parte di quello che ci circonda, che la nostra
vista e i nostri sensi in un altro momento forse non
percepirebbero. O, più semplicemente, ci sono momenti in cui ci
troviamo a notare certe piccole cose, altrimenti non considerate
in periodi vissuti con ritmi più pressanti.
Cominciamo questo viaggio, dunque.
Capitavo spesso per lavoro e per altri motivi dalle parti di Ceprano
e normalmente la via più breve e spicciativa per arrivare a
destinazione è la Casilina. Ma a volte andare da qualche parte non
significa “voler” arrivare presto anzi certe volte ci si rende conto
che non si vorrebbe arrivare mai. E allora senti che il piede
sull’acceleratore è leggero, si mettono le marce lentamente si
guarda l’orologio sperando che rallenti, si pensa a qualche
imprevisto, quasi sperando di saltare l’appuntamento. Poi ti
accorgi di essere comunque arrivato, che tutte le fantasie si sono
disciolte, e torni con i piedi per terra.
Riflettevo proprio su questi aspetti quando, un giorno, decisi di
allungare il percorso, anche se di poco, quel tanto che bastava per
ricaricarmi un poco.
Pensai così di prendere la strada che passando per la diga di S.
Giovanni Incarico e poi per Isoletta mi avrebbe portato sì a
Ceprano ma in un lasso di tempo più lungo.
E così, percorrendo quella deviazione mi trovai ad Isoletta:
quattro case, una chiesa, pochissime persone in giro; era per me
un posto nuovo, una “scoperta”, resa ancor più sorprendente dal
fatto che in fondo mi trovavo a pochi chilometri da casa,
ma non mi ero mai trovato a passarci prima!
Ci arrivai una mattina d’inverno, con la nebbia che da
quelle parti non manca di certo, e sentii il bisogno di
fermarmi, di prolungare quel sottile piacere, misto a
curiosità e gioia per aver trovato un luogo che appariva
bellissimo ai miei occhi e al mio animo.
Entrai in un bar, che definirlo tale era un vero complimento,
ma per me andava bene così. Appena entrai mi colpì la
miscela di odori - fra l’amaro dei caffè e il dolce delle
brioche – ed il parlare allegro di gente che prendeva un
piccolo riposo.
Passai dalla fredda nebbia esterna al vapore all’interno del
bar. Rimasi un po’ in attesa, gustandomi quel momento, poi
il proprietario inquadrandomi come nuovo cliente mi offrì
un caffè sperando, come lui stesso mi disse, di annoverarmi
fra i suoi clienti futuri.
E fu cosi che cominciai a frequentare il bar di Gino ad
Isoletta, il mio primo vero porto nelle nebbie.
Quel bar divenne il porto dove ogni tanto attraccare nel
mio piccolo girovagare; mi fermavo a respirare quegli odori,
a nutrirmi di “niente”: chiacchiere di gente ignota che
cominciava a diventarmi familiare, discorsi senza valore, a
volte senza senso, commenti su avvenimenti sportivi o su
altri tipi di notizie, belle, brutte, locali, internazionali.
Alcune volte mi fermavo a parlare con Giovanni La Bella di
San Giovanni, habitué del bar e profondo conoscitore della
politica locale e nazionale, un uomo molto colto nella sua
semplicità e soprattutto di modi signorili.
Quello stesso posto, d’estate, soprattutto di domenica, si
riempiva di gente rumorosa e vociante ai tavoli sotto la
grande pergola di vite rampicante e di liquidambar in
fioritura.
E io sguazzavo in questo vociare: era la mia piccola
ricompensa insieme al cappuccino e alle brioche, che
buttavo giù con gusto.
Quei pochi minuti mi aiutavano ad affrontare la vita che
allora non mi sorrideva ma che in quel bar diventava meno
pesante e più sopportabile.
Ricordo che ogni scusa era buona per parlare di quel posto
e sfruttavo ogni occasione per portarci qualche amico -
ricordo Riccardo e Angelo, tra i tanti – cercando di
trasmettere anche ad altri le mie stesse emozioni.Poi per
fortuna la vita prosegue, cambia come cambiamo noi,
come è cambiato il mio stato d’animo e come è cambiato
anche il Bar di Gino a Isoletta.
Ora è diventato una Pizzeria/Bar, la pergola non c’e più, al
suo posto troneggia un grande gazebo.
D’estate c’è l’aria condizionata e d’inverno il riscaldamento
sempre acceso ha tolto qualcosa a quell’atmosfera di un
tempo. Anche Gino è cambiato, d’altronde accusa i tanti
anni passati dietro quel bancone e tante volte d’inverno
quando capito lì sta vicino al camino a recuperare qualche
minuto di sonno.
L’ultima volta sono capitato in tarda mattinata, una di
quelle dove la nebbia si taglia con il coltello. Nell’entrare ho
visto Gino appoggiato al camino a dormire. Ho accennato
un sorriso, poi capendo che non mi aveva sentito sono
uscito senza disturbarlo, mi dispiaceva svegliarlo, sarà per
una prossima volta.
Vincenzo
PORTO DELLE NEBBIE
(Vincenzo dal n-ro 45 aprile 2004)
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dal film “Porto delle nebbie”