ECO REVISITED
Ancora un articolo
tratto da una vecchia edizione dell’Eco. L’iniziativa continua a suscitare
molti apprezzamenti, soprattutto da parte di tutti coloro che hanno conosciuto
l’Eco di Roccasecca soltanto da poco tempo e che quindi non hanno potuto
assaporare gli articoli pubblicati negli anni passati. Sono veramente tanti
coloro che oggi, grazie a questi “Eco revisited”, hanno finalmente potuto
leggere ciò che avevano precedentemente ascoltato soltanto “in voce” dai
racconti di amici e parenti più fortunati, possessori dei primi numeri della
rivista.
Ricordiamo che questa
“rivisitazione” antologica viene presentata con una nuova impaginazione e
l’aggiunta, quando è possibile, di fotografie appropriate che nelle edizioni
originali erano assenti. L’articolo proposto in questa occasione, dedicato ad
un oggetto tipicamente ciociaro, risale all’Eco di Roccasecca numero 12,
pag. 6, pubblicato nel
gennaio 1998.
La Cannata
Donna roccaseccana
che trasporta con classico stile una cannata piena d’acqua
I meno
giovani tra di voi avranno sicuramente impressa nella memoria una immagine:
donne roccaseccane che si fermano presso una fontana, riempiono di acqua fresca
la grossa “cannata”, se la rimettono sulla testa, apparentemente senza
troppa fatica, appoggiandola su un fazzoletto o un panno arrotolato (cercine), e
riprendono la strada di casa continuando tranquillamente a chiacchierare. Come
se niente fosse. Alle volte la strada che porta a casa è impervia, sconnessa,
in salita o in discesa, acciottolata, ma loro non si scompongono e procedono il
cammino con queste enormi brocche che dondolano sulle teste ma rimangono ben
ferme fino all’arrivo a destinazione.
Ma che
cosa è questa cannata? Un nome a noi familiare ma a tante altre persone e genti
del tutto estraneo? Nel dizionario del dialetto di A. Germani, “Arrénneme gliu fazzelettòne”, alla voce cannata leggiamo: Orcio di
terracotta con anse. Istoriata con semplici disegni stilizzati, provvista di un
beccuccio a tubo, un tempo veniva utilizzata per il trasporto dell’acqua
potabile dalla sorgente (surgiva) o dal pozzo ed anche per conservare l’acqua
fresca; veniva collocata su una pietra o su un tavolo al fresco dopo averla
coperta con un fazzoletto impregnato di acqua. Le nostre donne la portavano in
equilibrio agevolmente sulla testa, servendosi di un cercine (spara): la
consuetudine di tale operazione conferiva loro quell’andatura nobile che
estasiava i pittori impressionisti francesi che si servivano, in gran parte, di
modelle ciociare. La cannata resta un elemento caratteristico del costume
ciociaro”.
Possiamo
ricordare che i semplici disegni di cui si parla sono di colore rosso scuro e
che esistevano diverse grandezze per questo contenitore d’acqua panciuto e con
due manici, anche se quella più usuale aveva un altezza di circa 50 centimetri.
Inoltre anche le cannate fuori uso venivano ancora utilizzate, per trasportare
l’acqua ramata.
Sempre
secondo il Germani, esiste un termine meno usuale e noto con cui si indica la
cannata, ed esattamente “ricciòla”,
particolarmente nelle zone di Arce, Roccadarce e Colfelice.
Ora
nessuno usa più le cannate per i suddetti scopi pratici. Le cannate vengono
vendute come souvenir, in varie forme, anche piccolissime, come quelle da noi
acquistate qualche tempo fa a Pastena, all’ingresso delle celebri grotte, con
su impressa la scritta “Ricordo di Pastena”.
Chi ha
la fortuna di averne qualche copia originale ne fa bella mostra in casa o in
giardino.
Di
recente ne abbiamo potuto ammirare due superbi esemplari, conservati benissimo,
nella casa di Celestino e Maria Rita a Castello, come si può apprezzare nella
foto che segue.
Una delle stupende cannate
conservate nella casa di Celestino e Maria Rita in località Castello. Esemplari
così perfettamente ben tenuti sono oramai cosa rara nella nostra città.
Complimenti ai possessori!
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Ecco ora un vecchio indovinello, la cui soluzione era per
l’appunto l’oggetto con il quale vi abbiamo intrattenuto su questa pagina.
Indovinello sulla cannata
Tè gliu coglie i nen tè la ciocca
Tè le vraccia i nen tè le mane
Tè gliu cure i nen tè gli pede
‘nduvina ched’è?