Rocco Bruni : quando si ama ….. il calcio

Lo conosco da quando avevamo sei anni. Rocco Bruni, una sorta di nostrano "Pibe de oro", qualcosa di simile ad un enfant prodige quando ti guardava e sorrideva quando arrivava a cento palleggi ( di sinistro, di destro, di testa, di coscia, di tacco, di spalla, ….). Mi chiedo quale scuola mai o quale maestro abbia potuto insegnargli ciò che indubbiamente gli era ingenito. Essere il nostro piccolo capo perché il più bravo di tutti a giocare al calcio, di lì agli anni della nostra adolescenza gli regalava una felicità che ci coinvolgeva, noi suoi amici, e che ce lo faceva vedere ora come un nostro piccolo Tartan, ora come il nostro piccolo Sandokan, i nostri eroi televisivi, ora come un punto di riferimento tranquillizzante quando stavamo perdendo contro le squadre avversarie dei vari campionati di calcio giovanili. Erano i tempi della prima comunione, e lui, catecumeno fresco, non nominava invano il nome di Pele’ o rey in chiusura di carriera, ma al dribblare un avversario, o quando la palla al piede da casa fino al campetto si insinuava in slalom tra i passanti o tirava al volo, mormorava:"Crujff, Crujff, Rivera…" scandendo al ritmo di una piroetta le sillabe dei nomi dei campioni dell’epoca, miti allora più attuali. Per lui il calcio e’ una religione se non il messaggio ecumenico che ipotizza le masse oceaniche mondiali, le sue divinità (i calciatori), i suoi profeti (tecnici, narcisisti, e protagonisti, presidenti, manager assetati di danaro e spregiudicati) e gli adepti fedelissimi (i tifosi) o l’aspetto taumaturgico e magico del miracoloso e del meraviglioso (e’ la scienza più inesatta dove tutto e’ possibile), o l’aspetto del divertimento (diverte = svagare svagarsi, distrarre e distrarsi), prodotto del carattere ludico finalizzato al diporto (evasione, svago,porsi dalla realtà al virtuale, in spagnolo "deportivo", in italiano "sportivo", o l’aspetto dunque poetico dell’idillio, ovvero del rifugio nella fantasia, ideale del "come si vorrebbe che la realtà fosse", esclusiva proprietà del solo gioco e del sogno identificati,perché i solo capaci e possibili del ribaltamento di ogni verità in cui l’irrazionale ed emotivo dionisiaco trionfano sul prosaico ed insufficiente apollineo della logica? Chissà cosa sarebbe stato della sua carriera se avesse calciato palloni anziché qui in paese, su qualche campo della periferia di una grande città, probabilmente più dell’attenzione di qualche eventuale osservatore emissario di qualche grande club prestigioso, o se fosse nato in un epoca come questa in cui il calcio scientifico e tecnologico dei campioni costruiti in laboratorio e della ricerca a tappeto di talenti non si fosse permesso di una così macroscopica svista?

Luca Di Ruzza