Casalvieri racconta

 

Suora Estella

 

Dal libro di Serafino Gino Zincone, che Silvio donò tempo fa alla biblioteca dell’Eco abbiamo tratto un racconto dal sapore invernale che così ben si adatta all’attuale stagione. Un amarcord dall’odore di legna bruciata che ci riporta indietro di tanti anni …

“Dal ponte dell’inferno, attraverso il purgatorio, fino al paradiso degli asini” questo il titolo della raccolta di racconti, i quali, come lo stesso autore ricorda nell’introduzione “riguardano fatti accaduti realmente o leggende trasmesse oralmente da nonne, zii ed anziani dalla ferrea memoria. Anche esperienze dirette ed un po’ di fantasia contribuiscono a costruire un quadro della vita casalvierana tra il 1850 ed il 1970.”

 

 

Nelle lunghe e fredde serate invernali la famiglia era solita riunirsi sotto il camino, accanto al fuoco. Anche a casa mia la grande cappa del camino accoglieva tutti i componenti.

 Come tanti altri, era talmente grande che circa dieci persone potevano sedersi intorno al grande ceppo, che ardeva sin dal primo mattino.

Il focolare vero e proprio era delimitato da un parafuoco in ferro battuto alto circa 10 cm. E spesso mezzo centimetro, modulato agli angoli in forma circolare. Due “lari” domestici facevano bella mostra di sé. Alti circa 80 cm. Erano decorati con applicazione in ottone.

Mio fratello Attilio ed io amavamo accovacciarci agli angoli del parafuoco, per scaldarci meglio e stare più vicini alla fiamma. Per questo motivo, poiché calzavamo calzoni corti, le nostre cosce ed i muscoli delle gambe erano arabescate a mo’ di salsicce che,, in gergo, venivano chiamate “visciole”, per il colore rosso-paonazzo e tondeggiante simile a quel tipo di ciliege.

Dopo aver cenato, quindi, ci riunivamo tutti intorno al fuoco, guardando la fiamma vivida ed ondeggiante e seguendo l’evoluzione di quelle minutissime faville di materia incandescente che dal grande “ciocco”, sospinte dal fumo, si innalzavano tremolanti verso l’alto.

“Sono le monachine che vanno a letto” diceva mia nonna, ed era il preambolo per ricordarci che, di lì a poco, avremmo dovuto anche noi infilarci sotto le coperte.

Ma noi cercavamo di resistere con mille domande.

Ricordo che quando chiedevo lei: “Perché i nonni vogliono tanto bene ai nipoti?”, rispondeva sempre “Forse per risarcire i figli degli errori commessi quando erano genitori”.

Per rimanere ancora svegli chiedevamo alla nonna di raccontarci la fiaba di “Suora Estella”. L’avevamo ascoltata tante volte ma ci incantava sempre per due motivi: narrava la storia tragica  di un cavaliere errante, ferito, reclinato sul suo destriero, che chiese aiuto ed ospitalità nel convento in cui viveva la bellissima “Suora Estella”.

Suora Estella, curando il ferito, se ne innamorò perdutamente, ma non potendo esprimere il suo sentimento morì di crepacuore. Il cavaliere volle portarla con sé sul suo cavallo bianco e seppellirla vicino al suo castello. Era la fiaba preferita perché declamata tutta in versi. Di essi ricordo solo quelli conclusivi.

 

 

 

“Sopra il dorso muscoloso della sua cavalcatura

collocava quel pietoso la defunta creatura

senza pianto, senza pompa, fu la morte seppellita

ma chi fosse niun sapea

poveretta ora pro ea”

 

Riuscivamo appena ad ascoltare queste ultime parole, che già sonnacchiosi ci portavano in braccio verso i letti, scaldati con il “monaco”.

Che cosa era il monaco?

Lo spiego ai più giovani, perché quelli della mia età lo ricordano bene.

Oggi esistono coperte e scaldaletti elettrici. Gli ambienti sono mantenuti a temperature costanti, con termosifoni ed impianti di condizionamento. Una volta, invece, non era così. Andare a letto d’inverno e trovare le lenzuola gelate era una sensazione senz’altro spiacevole. Per ovviare a ciò si usavano attrezzature più semplici. Una di queste era, appunto, il “monaco”. Un attrezzo di legno, formato da listelli uniti in forma rettangolare e sovrapposti ad una distanza di circa 50 centimetri. Al centro, una tavolozza quadrata di una ventina di centimetri, ricoperta di zinco.

Questo attrezzo veniva inserito tra le coltri e formava una specie di tettuccio (in edilizia simile all’elemento verticale centrale della capriata, alla cui sommità si incontrano i puntoni inclinati secondo le falde del tetto, detto tecnicamente monaco, da cui il nome). Un recipiente pieno di brace veniva deposto sulla tavolozza zincata e si lasciava per una mezz’ora.

 

 

Quando ci si infilava tra le lenzuola, un gradevolissimo tepore conciliava il sonno nel migliore dei modi.

Si usava anche un altro attrezzo, meno elaborato: lo scaldaletto. Nelle fiere e nei mercati se ne trovano ancora.

 

 E’ un recipiente costruito in ferro e rame, a forma di grande padella, in cui deposita la brace. Un coperto forato ripara le lenzuola dal fuoco ed un manico di ferro ed un’impugnatura in legno servono per manovrarlo. Prima di coricarsi veniva passato tra le lenzuola, muovendolo continuamente in tutti i lati. Anche così si otteneva un calore uniforme e gradevole. Ma il tepore aveva meno durata di quello del monaco. Per questo si usava reintrodurlo anche quando la persona era già a letto e la consorte arrivava più tardi, desiderosa anch’essa di scaldare il suo posto. Ciò, a volte, produceva qualche inconveniente, come quello che capitò ad Antonio.

La moglie di questi, alle comari incontrate la mattina, riferì che per una decina di giorni non avrebbe potuto fare l’amore col marito. Infatti la sera precedente, manovrando lo scaldaletto rovente aveva urtato le parti basse del marito che, già a letto a gambe larghe, godeva del tepore emanato dallo scaldaletto. La scottatura era piuttosto seria e, diceva la donna, “Antonio mie p’ ca’ s’tt’mana non po’ add’prà glie pellitr’” (Il mio Antonio per qualche settimana non potrà adoperare il puledro).

 

S. G. Zincone