Ricordando   Alberto Sordi

Alberto Sordi è stato l’ingenuo Nando Moriconi (UN AMERICANO A ROMA), il vigile Celletti (IL VIGILE), il cinico e arrivista dottor Tersilli (IL MEDICO DELLA MUTUA), l’intransigente fustigatore dei costumi, che però gestiva una casa di tolleranza (IL MORALISTA), lo sfaccendato giovane (I VITELLONI); e ancora uomo d’affari arruffone ed incapace (IL VEDOVO), marito laido e vigliacco (BUONANOTTE AVVOCATO, IL SEDUTTORE).

Ho citato appena sei film e in ognuno di questi emerge una maschera che Sordi ha interpretato con grandezza e originalità uniche.

Il talento più alto di Sordi è stato quello di aver saputo leggere ed analizzare con impareggiabile bravura l’italiano medio, soprattutto quello del dopoguerra. Alberto Sordi ha saputo individuare con chirurgica precisione  i molteplici aspetti della personalità dell’italiano: il cinismo, la bonarietà, l’ingenuità, la furbizia, la vigliaccagine, l’eroismo. La sua arte è stata quella di far ridere rappresentando personaggi negativi che più che divertire, solitamente fanno vergognare.

Martellare  per l’intera carriera, durata cinquanta splendidi anni, il pubblico, sul concetto che l’italiano sia di base un uomo perennemente cialtrone, mammone e velleitario, e ottenere un successo andato ben oltre i confini nazionali, può sembrare un paradosso, ma non lo è. Il principale merito di Sordi è stato quello di averci fatto ridere, tanto, a crepapelle. Solo Totò è riuscito a fare altrettanto. I due grandissimi artisti sono figli di epoche diverse, ma in comune hanno avuto un’esperienza formativa importantissima: quella di aver fatto avanspettacolo. Perché dico questo? La risposta è che quel tipo di rappresentazione, come recita quel AVAN, avveniva prima del vero clou del programma della giornata e quindi doveva guadagnarsi innanzitutto l’attenzione e poi il gradimento del pubblico. Centrare entrambi gli obiettivi significava avere stoffa e qualche possibilità di diventare un grande artista.

 

 

Un altro aspetto in comune tra Totò e Sordi -che comunque erano per altri versi poeti del cinema diversissimi tra loro e anche artisticamente non molto compatibili, come dimostra il modesto risultato di TOTO’ E I RE DI ROMA- era la vera e propria cattiveria, malignità e spietatezza  che sapevano usare per arrivare a far ridere il pubblico (e che spesso usavano anche con le loro spalle; come fa il Principe della risata spesso e volentieri con Peppino De Filippo –altro gigante- il quale veniva vessato fisicamente fino alle soglie del dolore fisico, come in TOTÒ, PEPPINO E I FUORILEGGE.

 

 

Totò un giorno affermò: <<si può ridere di tutto, anche di un funerale: basta vederlo da un punto di vista diverso da quello del defunto>>.

È verissimo e Sordi ha fatto suo e rilanciato proprio questo concetto. Un esempio: il marito velleitario e inconcludente del VEDOVO cos’è se non un fallito? Di più: quando vede che ormai la moglie non sorregge più economicamente le sue iniziative, ne progetta l’omicidio, ma finisce per morire lui. Eppure l’effetto costante di questo film è quello di far ridere, dall’inizio alla fine.

Il petulante Mario Pio –personaggio nato alla radio e trasportato di peso sul grande schermo in MAMMA MIA CHE IMPRESSIONE- è una maschera ossessiva, come quell’intercalare <<signorina Margheritaaaaa>>.

Ma il giovane Sordi ci sguazza e inizia a costruirci su una carriera esplosiva. Alberto Sordi –attore per vocazione, come lui amava ripetere allorché raccontava che i suoi primi esperimenti di recitazione gli aveva fatti da chierichetto, quando si trovava sull’altare a fianco del sacerdote- nel momento in cui inizia a fare cinema intuisce che il segreto affinché la sua arte si sviluppi risiede nel cercare di diventare l’archetipo dell’uomo che la realtà del dopoguerra gli fornisce e del tentativo che quello fa per ricostruirsi un’identità, andata distrutta sotto le macerie del conflitto e del fascismo. Sordi sceglie il momento giusto ed è aiutato dal fatto che dagli anni cinquanta alla metà degli anni settanta il cinema italiano pullula di talenti nella regia (Fellini, Monicelli, Risi), nella scrittura di soggetti e sceneggiature (Scola, Age, Scarpelli, Sonego), nelle colonne sonore (Piccioni, Trovaioli), nelle partnership artistiche (Vittorio Gassman, Nino Manfredi, Aldo Fabrizi, Franca Valeri, Monica Vitti, Lea Massari) –e non dimentichiamoci i caratteristi, quali: Claudio Gora, Nando Bruno, Livio Lorenzon, Franco Interlenghi, Franco Fabrizi, Mario Riva, Riccardo Billy, Mario e Memmo Carotenuto- montatori (Ruggero Mastroianni –il fratello di Marcello: insieme recitarono in un film e tutti rimasero stupefatti della bravura di Ruggero; come dire il talento, un vizio di famiglia- Nino Baragli, Tatiana Morigi, Roberto Cinquini), ma ci mette tantissimo di suo, laddove, una volta fotografata la realtà, ci restituisce sfolgoranti ritratti dei mutamenti che l’Italia attraversa in quegli anni.

Il grande regista Mario Monicelli –I soliti ignoti, La grande guerra tra le sue perle- nei giorni scorsi ha sottolineato come Sordi sia stato non solo grandissimo come interprete, ma lo è stato anche come autore. Riferendosi non tanto alla bravura di Sordi come sceneggiatore e regista –attività svolta più che dignitosamente, come dimostra la sua prima direzione del 1966, FUMO DI LONDRA- quanto a quella capacità di mettere tanto di suo in quei personaggi che interpretava e che ha dimostrato di saper caratterizzare con smorfie, saltelli, risate, sguardi ora allucinati, ora persi, ora esaltati.

Ma la poetica di Sordi non esprime solo un grande comico, nelle sue maschere egli ha espresso anche la voglia di riscatto dell’italiano, in particolare del borghese.

Il punto è, come ci ha dimostrato la storia del nostro paese, che a questa voglia di riscatto non si è unito un piano razionale di crescita, ma si è andati avanti ad espedienti e sotterfugi. E la grandezza di Sordi è stato il saper cogliere, fotografare e proiettare questi aspetti mentre avvenivano, in tempo reale e non con il senno dell’analisi a posteriori propria dello storico.

Ed ecco la nascita di personaggi intramontabili, che sono stampati nell’immaginario collettivo degli italiani.

Mi riferisco al protagonista de IL BOOM che arriva a pensare di vendersi un occhio, pur di conquistare la tranquillità economica; oppure il partigiano intransigente di ANNI DIFFICILI, che passa attraverso una lunga serie di umiliazioni a causa della sua velleitarietà e solo alla fine parzialmente si riscatta spingendo in piscina l’arrogante industriale per cui lavora –industriale a sua volta epigono di tanti esempi che la realtà ci ha fornito e ci fornisce tutt’ora- cercando così di riconquistare l’amore della moglie, ma perdendo comunque l’unico lavoro, ancorché umiliante, che aveva saputo trovare.  

Ancora: lo sconquasso della sanità sublimato nella figura del dottor Tersilli ne IL MEDICO DELLA MUTUA. Quel medico non si ferma davanti a niente pur di accaparrasi i duemila e passa mutuati di un suo collega morente: circuisce la futura vedova, lascia la sua fidanzata, non si cura di essere considerato un verme dai suoi colleghi –nient’affatto migliori di lui, ma semplicemente inviperiti di essere stati battuti in furbizia dall’ultimo arrivato- il suo unico obiettivo sono i mutuati, carne da cannone attraverso cui conquistare il benessere, parola chiave di quegli anni.

Ed ancora: Otello Celletti de IL VIGILE, inizialmente quando è disoccupato si mostra in tono dimesso, tutti lo sbeffeggiano; –ricordate? Ogni volta che entra indossando la vestaglia da camera in osteria, viene accolto dal beffardo suono di una greve pernacchia- poi una volta divenuto vigile urbano Celletti si ammanta di spocchia, sentendosi ormai arrivato, rappresentato ed intoccabile, grazie a quella divisa di pelle nera indossata con estremo narcisismo.

 

 

Ebbene, ribadisco un’altra volta: sono film in cui Sordi fa ridere continuamente.

Un’altra caratteristica di Alberto Sordi è una connotazione fisica, sfata infatti quel adagio che vuole il comico brutto. Sordi invece è un uomo dall’aspetto piacente, (non ha la faccia asimettrica di Totò) eppure grazie al grande studio fatto sulla sua mimica ha fatto ridere almeno cinque generazioni. In che misura la sua maschera comica abbia insegnato agli altri, lo dimostra quanto disse un altro grandissimo fuoriclasse del cinema e del teatro Vittorio Gassman –nato attore drammatico- che disse senza tanti giri di parole come le sue corde comiche le aveva accordate soprattutto guardando Alberto Sordi.

Sordi e tutta la sua carriera corrono come un filo rosso che l’unisce alla storia dell’Italia del dopoguerra, per questo si può dire che alla fine Sordi sia un tutt’uno con il Paese, sia  cioè l’Italia stessa. A fissare questa immagine basta citare il programma che alla fine degli anni settanta Sordi firmò insieme a Giancarlo Governi, intitolato appunto STORIA DI UN ITALIANO.

 Quale altro attore avrebbe potuto fare un programma che narrasse la storia di un secolo di storia utilizzando solo i film che lo videro protagonista, senza cadere nel ridicolo? Alberto Sordi. Proprio  Giancarlo Governi ha suggellato questa identificazione tra Sordi e l’Italia cogliendo nella tragica figura del protagonista di UN BORGHESE PICCOLO PICCOLO  -un uomo modesto che quando gli viene ucciso il figlio, durante una rapina ad una banca si trasforma in un vendicatore assassino- il culmine, il punto finale della rappresentazione della borghesia italiana, ossia della classe sociale che ha caratterizzato la trasformazione traumatica dell’Italia, da paese contadino a paese industriale, da parte di Alberto Sordi. E quindi anche il raggiungimento dello zenit della sua carriera artistica. All’epoca de IL BORGHESE PICCOLO PICCOLO siamo nel 1977 e da lì in poi Sordi ci regalerà ancora un paio di chicche, quali IL MARCHESE DEL GRILLO di Mario Monicelli (1981) e STORIA DI UN GIOVANE POVERO di Ettore Scola (1995), che tuttavia aggiungono poco alla storia.

Alberto Sordi è stato protagonista di tantissime scene che hanno fatto la storia del cinema. Per concludere io scelgo quella dove ha raggiunto uno dei punti più alti d’intensità ed espressività creativa: l’ ultima sequenza de LA GRANDE GUERRA in cui egli appare.

 

Per tutto il film lui e Gassman hanno impersonato i due tipici soldati italiani di fanteria lavativi, parolai e fifoni. Ma una volta catturati, Gassman, sferzato dall’alterigia degli Austriaci, si rifiuta di collaborare e viene avviato alla fucilazione. È subito dopo che Sordi è grandissimo: Gassmann viene portato via, e incrociando il commilitone gli strizza l’occhio a mo’ d’incoraggiamento. Nel silenzio più assoluto della stanza, Sordi si avvicina alla finestra e apre le imposte. Si sentono echeggiare in tedesco i secchi ordini al plotone d’esecuzione. Subito dopo aver udito gli spari, Sordi si piega su stesso. Ancora con il corpo raggomitolato e le mani giunte,  si rivolta verso i due ufficiali austriaci e gli dice:<<ma che siete matti?! ma che s’ammazza così la gente?>> aggiungendo subito dopo:<<ma lor signori credevano che io lo sapessi…..dove costruiranno il ponte di barche? Io non so’ niente, io so’ solo un soldato. A noi soldati non dicono mai niente>> Non ha ancora finito di parlare e gli Austriaci lo stanno già portando davanti al plotone d’esecuzione. Le ultime parole che pronuncia quando i fucili sono già puntati contro di lui sono prima rivolte all’amico:<<a Giovà, io c’ho paura>> e poi rivolto al nemico:<<io so’ un vigliacco. Lo sanno tutti>>. La grandezza è in quel passaggio da codardo ad eroe, forse involontario o inconsapevole, sottolineato dalla mimica del corpo, dalla faccia spaurita e supplicante, dalla voce piangente, che creano un pathos drammatico immenso. Il tutto dura meno di tre minuti, ma è  un vero capolavoro di arte recitativa. Solo un attore di qualità eccelse poteva riuscire in una interpretazione così intensa, un attore come, appunto, Alberto Sordi.

 Gianni Sarro