Quando Scienza e Letteratura andavano a braccetto: Le Api

 

 

Il Miele, in “I Discorsi” di Pietro A Mattioli, 1573

 

 

Nello scorso mese di aprile ho letto una notizia che mi ha profondamente colpito, sia come simpatizzante del genere animale, sia (o per meglio dire “soprattutto”) come costante e affezionato consumatore di miele.

Il titolo diceva “Le api rischiano l'estinzione”.

Il loro ronzio potrebbe essere presto un ricordo del passato. Così come la cera e il miele. Si sta infatti riducendo a ritmi vertiginosi il numero di questi insetti preziosi per l'uomo e per la natura. A lanciare l'allarme è il World Watch Institute, che mette sotto accusa pesticidi e insetticidi di grandi multinazionali. Le api hanno dimostrato di sapersi adattare e resistere allo smog delle grandi città, all'inquinamento di questi decenni, all'invasività della meccanizzazione delle campagne, ma ora, ed è questa la tragica circostanza finora sottovalutata, stanno per soccombere di fronte al letale binomio insetticidi/effetto serra. I numeri delineano già un quadro drammatico: un terzo degli alveari di ape domestica è scomparso, stessa sorte per le selvatiche che soccombono nella competizione con altre specie.

La storia della decimazione delle api è lunga e parte già dalla fine degli anni sessanta in Francia dove la loro scomparsa fu causata dall'uso di una molecola di un insetticida che, applicato direttamente ai semi di mais e girasoli, veniva poi assorbito dall'intera pianta nel corso della crescita. Gli insetti che impollinavano le piante trattate, lo raccoglievano insieme al polline, lo riportavano all'alveare avvelenando così l'intero sciame.

 

Il prodotto fu proibito nel 1999, ma sostituito da uno simile, questa volta di un'altra multinazionale altrettanto letale. A distanza di 5 anni ne è stata vietata la vendita, ma autorizzandone l'applicazione fino ad esaurimento scorte. In Italia milioni di api sono state trovate morte ai piedi degli alveari dal Piemonte alla Calabria. Sette su dieci, secondo i dati forniti dai produttori, non hanno concluso il loro ciclo vitale nell'ultimo anno e questo ha significato un calo rilevante della produzione di cera e di miele. Tra le cause sia la siccità estiva del 2003 sia le piogge incessanti della primavera successiva. Secondo gli allevatori la strada è ora a senso unico: dare la possibilità a queste piccole lavoratrici dell'ambiente di non succhiare veleno con lo stesso polline, di aiutare l'Italia con i suoi 50 mila apicoltori, 1 milione e 100 mila alveari, una produzione di oltre 10 mila tonnellate e un consumo di circa 20 mila tonnellate di miele l'anno.

Detto questo, per la cronaca e come stimolo per eventuali battaglie e proteste, colgo lo spunto di tale argomentazione per rinverdire nelle sopite menti un certo tipo di divulgazione che sembra oramai destinata a restare soltanto un pallido ricordo del tempo che fu. Mi riferisco ad alcuni testi scolastici per i licei classici che ben coniugavano la scienza con la letteratura, tenendo desto l’interesse scientifico senza tralasciare i riferimenti letterari. Oggi non si usa più!

 

L’ape comune, illustrazione del libro “Botanica e Zoologia”

 

A casa ho due volumi di Botanica e Zoologia (di A. POLI ed E. TANFANI, Sansoni Editore, Firenze, 1898) che contengono alcune pagine molto interessanti. Nel capitolo dedicato agli INSETTI, ci sono otto pagine sulle API, di cui sei a carattere scientifico e ben due di collegamenti con poeti e scrittori, che non appaiono fini a se stessi, ma parte integrante del discorso. Ne riportiamo gran parte.

 

Busto di Omero

 

Ai tempi omerici, come in allora e più tardi in molti luoghi, il miele si mescolava al latte e al vino. In Omero la voce delle sirene e i discorsi di Nestore, sono dolci come il miele. Il grande poeta greco così descrive la grotta delle Naiadi:

 

Quale dai fori
di cava pietra numeroso sbuca
lo sciame delle pecchie, e succedendo
sempre alle prime le seconde, volano
sui fior di aprile a gara, e vi fan grappolo
altre di qua affollate, altre di là;
così fuor delle navi e delle tende
correan per l'ampio lido a parlamento
affollate le turbe, e le spronava
l'ignea Fama, di Giove ambasciatrice.

 

(Omero Iliade libro II, V. Monti)

 

 

Dello sciamare delle api Omero si serve bellamente come paragone:

 

Spande sovra la cima i larghi rami
Vivace oliva, e presso a questa un antro
S'apre amabile, opaco, ed alle ninfe
Nàiadi sacro. Anfore ed urne, in cui
Forman le industri pecchie il mel soave,
Vi son di marmo tutte, e pur di marmo
Lunghi telai, dove purpurei drappi,
Maraviglia a veder, tesson le ninfe.
Perenni onde vi scorrono, e due porte
Mettono ad esso: ad Aquilon si volge
L'una, e schiudesi all'uom; l'altra, che Noto
Guarda, ha più del divino, ed un mortale
Per lei non varca: ella è la via de' numi.

 

(Omero Odissea libro XIII, I. Pindemonte)

 

 

 

Care furono le api a Virgilio, che dolcemente ne canta nel Libro Quarto delle Georgiche, tutto ad esse dedicato, e che Giovanni Rucellai imitò nel suo poema “Le Api”. Riportiamo il seguente brano del poeta latino:

 

(a questo punto sul testo originale viene riportato il brano – parte iniziale del Quarto Libro delle Georgiche -  sia in Latino che nella traduzione in Italiano, ma noi, per motivi di spazio e di “leggibilità” ne pubblichiamo la parte in Italiano; non ce ne vogliano gli amici “latinisti”! ndr)

 

 

Seguitando, del miele aereo il dono

celestiale descriverò.

Prima all’api cercar devi una stanza

al coperto de’ venti, perché i venti

impediscono il trasporto del cibo nella casa. E le pecore e i capretti ruzzanti

non calpestino i fiori,

o vagando una giovenca per il campo

non scuota la rugiada dai rami

e non calpesti l'erba nascente.

Siano lontane anche,

con le loro macchie sui dorsi squamosi,

le lucertole dalle ben fornite stalle delle api, le meropi e altri volatili e Procne, sul petto chiazzata da mani cruente.

Essi ogni cosa per largo tratto devastano e le stesse api in volo col becco afferrano,

dolce esca per i loro covi crudeli.

Invece le limpide fonti

e stagni verdeggianti

di muschio siano vicini,

e sottile in fuga tra l'erbe un rigagnolo;

una palma l'ingresso

o un grande oleastro ombreggi.

Così, quando per la prima volta

i nuovi re guideranno gli sciami

nella primavera che è fatta

per loro,

e godranno di aver lasciato i favi le giovani api,

vicino la ripa le inviterà a ritrarsi dal caldo,

e pronta le accoglierà

con la fronda ospitale la pianta.

In mezzo all'acqua,

stagnante o scorrente,

getta di traverso salici e grosse pietre,

affinché su ponti frequenti

possano sostare

e le ali stendere al sole estivo,

se mai, mentre indugiavano,

le spruzzò

o improvviso in Nettuno le immerse l'Euro.

 

 

 

Attorno la cassia verdeggiante,

il sermollino dal diffuso olezzo

e copiosa la santoreggia dall'acuto profumo fioriscano,

e al corso della sorgente bevano cespi di viole.

Essi poi, sia che tu li abbia connessi di

cortecce vuote sia che li abbia,

gli alveari, di flessibile vimine intrecciati,

angusti devono avere gli ingressi, perché col suo freddo i mieli indura l'inverno

e viceversa il calore

li fa troppo liquidi e molli.

L'assalto di entrambi è

per le api ugualmente temibile,

ed esse non per nulla nei loro tetti

a gara cospargono di cera i minuti

spiragli,

e di resina tratta dai fiori

le fessure ricolmano;

raccolgono per questa stessa funzione

un glutine più appiccicoso del vischio

o della pece dell'Ida frigia e lo conservano.

Spesso anche, se il vero si narra,

in fori nascosti sotto la terra un caldo nido

ricavarono,

e in profondità se ne trovarono

nei vuoti delle pietre porose

o nel cavo di un albero corroso.

Tu però i loro covi screpolati

di sottile fango spalma intorno,

tenendoli al caldo,

e qualche ramo sovrapponi.

Troppo vicino ai loro tetti l'albero del tasso non lasciare, non far rosseggiare

abbrustolendoli al fuoco i gamberi,

non affidarti alle profonde paludi

o dove il limo ha odore dannoso

o dove concave rupi rimandano l'urto dei suoni e della voce si abbatte

e rimbalza l'eco.

 

 

Per il resto, quando il sole dorato le spinge l'inverno e lo manda sotterra,

il cielo con l'estiva sua luce riaprendo,

esse subito le balze selvose percorrano

mietendo i fiori sfolgoranti

e delibando dei fiumi il pelo dell'acqua,

leggere.

Così, di non so quale dolcezza contente,

la prole nei nidi esse nutrono;

così abilmente le fresche cere elaborano

e induriscono i mieli.

Così, quando ormai esce dall'arnia verso gli astri del cielo

remigando per la limpida estate e la vedi in su questa schiera,

oscura nuvola - un miracolo - trascinata dal vento; osserva:

ad acque vive e a ripari di frasche sempre si dirigono.

Là tu spandi i prescritti aromi,

appiastro tritato

e di cerinta la comunissima erba;

desta tintinni e scuoti della Madre i cembali

attorno: e spontaneamente si fermeranno in quei luoghi profumati,

spontaneamente al fondo delle celle per puro istinto si nasconderanno.

 

(Virgilio, Georgiche Libro Quarto)

 

Porzione di un favo, illustrazione del libro “Botanica e Zoologia”

 

All’andare e venire delle api Dante paragona i movimenti dei beati nel Paradiso (XIII, ter. 3) mentre formano la “candida rosa”.

 

Siccome schiera d'api che s'infiora
Una fiata, ed una si ritorna
Là dove suo lavoro s'insapora...

 

[Dante, Paradiso, XXXI, 7-9]

 

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