Memorie e ricordi di Caprile . . . e oltre (Sesta puntata) di Roberto Matassa  (foto dell'autore eccetto ove indicato)   L'emigrazione e' di certo un grande cambiamento, si lascia la propria patria e spesso si  debbono affrontare situazioni ed abitudini poco confortevoli. Mezzo secolo fa il mondo  funzionava diversamente sia per le distanze che per l'avvicendamento etnico fra i  popoli vincitori e sconfitti, specialmente tra le nazioni europee. Gli Italiani dopo l'ultima  guerra vivevano con il complesso della sconfitta poco dignitosa ed era inevitabile  soffrire le conseguenze di quelle pagliacciate degli anni trenta; purtroppo i sogni di  potenza e di potere si erano infranti ed erano stati sostituiti dalla tragedia maturata con  un costo umano formidabile. Personalmente questo complesso l'ho vissuto per tanti  anni, mi sentivo come un protagonista colpevole di fronte a gente di altre parti  d'Europa. Ma piano piano ho riconquistato il mio orgoglio e tante volte mi domandavo  che cosa ne sarebbe stato del mondo senza gli Italiani!   Pensate che questo mi hanno detto alcune volte degli intellettuali Inglesi, che di solito  non sono molto espansivi nei confronti di altri popoli. Quando cominciai a capire la  lingua Inglese, trovavo sempre nelle librerie testi di grande interesse, ne cito uno tanto  per cominciare "DECLINE AND FALL OF THE ROMAN EMPIRE" di Edward Gibbon,  storico inglese che nel 1700 faceva parte dei cosiddetti travellers che giravano l'Europa  per riscoprire la storia. Con quanto ardore lui descrive la prima visita a Roma come  avesse ritrovato la madre. E poi cita tanti altri nomi eccellenti, a cominciare da  Cicerone, quasi compaesano, comunque ciociaro, che quando scuoteva con la sua  favella il senato di Roma, in Gran Bretagna erano ancora dei selvaggi....   Torniamo alla mia partenza dalla madre patria. Lasciavo l'Italia da Napoli e chiunque  conosce questa città capirà con quanto dolore,  partivo non su un bastimento, ma con un treno a vapore attraversando mezza  Europa, e arrivando a destinazione mezzo affumicato come una salsiccia, nel mese più brutto dell'anno, novembre.   Conoscevo bene l'ufficio di collocamento di via Duomo a Napoli, le lunghe file, la burocrazia, le qualifiche che erano sempre le  stesse ossia MANOVALE. Mi rassegnai perché dopo tutto, come dicono gli americani "A job is a job", vale a dire "Un lavoro e'  sempre un lavoro". Ma avevo capito che se fossi rimasto a Napoli avrei trovato un posto che sarebbe stato l'inizio e la fine della  mia vita. Se eri usciere, andavi in pensione da usciere, se eri operaio finivi la tua vita da operaio; io avevo tanta volontà e forza per  affrontare ogni ostacolo, e un desiderio di avventura, perciò decisi di partire con la convinzione di non voler tornare un giorno in  Italia da sconfitto. Parlando con i miei amici sul Ponte Della Sanità, a Santa Teresa, dicevo sempre che ce l'avrei fatta. E loro mi  chiedevano "ma perché proprio la Gran Bretagna?" .   Rispondevo che le ragioni erano fondamentalmente due. Prima di tutto "Gran" la interpretavo come grandezza, dominava mezzo  mondo e già pensavo, guardando il mappamondo, che da quel Paese mi sarebbe stato facile in futuro partire per altre Nazioni ad  esso collegate (Stati Uniti, Australia, etc.). La seconda era di tipo familiare, in quanto avevamo parenti che si erano stabiliti in  Scozia. Purtroppo non si poteva entrare in Gran Bretagna senza il permesso di lavoro e un contratto da rispettare per quasi cinque  anni.  Che orrore vedere Londra impiastrata di nero dal fumo di migliaia ciminiere che andavano a tutta forza, lo SMOG come lo  chiamavano bisognava vederlo e soffrirlo per capirci qualcosa; il colletto della camicia si sporcava in breve tempo, le narici del  naso erano sempre sporche.   L'industria più prolifica era il commercio del carbone per riscaldamento e fuori ogni porta di casa ci doveva essere "the box" ossia il  cassone per il carbone e c'erano carbonai trasportatori che facevano consegne da tutte le parti.  La città più vicina alle fabbriche di mattoni era Bedford, citata come una quieta cittadina del Bedforshire, attraversata dal fiume  Ouse. A Bedford non c'era tanto smog, centro della provincia con tanti negozi e collegi. A me apparve molto bella e ordinata con le  fabbriche di mattoni più importanti della G.B. come la London Brick e la Marston Valley dove lavoravo io.   Era un inferno che non e' facile descrivere, sarebbe appropriato rievocare Dante  con la Divina Commedia (Inferno), una fila di  ciminiere tutte alte e fumanti per le tante fornaci operanti; la creta arrivava direttamente dalle cave che avevano creato un  immenso scavo nella terra e si lavorava continuamente con turni di notte e giorno, per la grande domanda di mattoni. Quando  passava il carrello con qualche bevanda era come un miracolo.  I mezzi di trasporto erano in moto continuamente per tante  destinazioni. Notavo che molte donne guidavano questi mezzi con  tanta sicurezza. Questo paese usciva dalla guerra con un'industria  dormiente fino a quando partì questa politica di "mass production"  (produzione di massa) e fra le migliaia di lavoratori i più numerosi  eravamo noi Italiani e, lo dico con orgoglio, eravamo anche i più  efficienti.  Quello che più ci mancava era "The accomodations" (la dimora), ci si  doveva accontentare di una stanza da condividere, si doveva andare  giù in piazza per doccia e lavanderia, i gabinetti erano sempre  occupati, la cucina … bisognava sognarsela! Io vivevo precariamente  con la mancanza di tutte quelle belle cose (di mamma), soffrivo ma  non scrivevo nulla ai miei genitori per non preoccuparli.   Mio padre mi scriveva spesso e mi dava coraggio, mi descriveva la  Scozia come un paese da sogno e mi diceva che sarei stato benissimo  con gli zii. Purtroppo sarebbero passati anni prima che il mio contratto  di lavoro si completasse - campa cavallo che l'erba cresce - ma tenevo  duro anche perché non volevo tornare in Italia a farmi ridere in faccia.  Quel che avevo lasciato a Napoli era irrecuperabile, ero ancora  convinto che le mie speranze per un ottimo futuro lavorativo non  dovessero rivelarsi una pia illusione.   Inoltre non volevo che chi avesse seguito le mie orme si trovasse a dover affrontare tutti questi inconvenienti. Lasciavo l'abitazione  alle cinque della mattina con un freddo incredibile, in compagnia di tanti altri raggiungevamo un punto prestabilito per l'autobus  della fabbrica, avevo un vecchio cappotto nero che mi era stato regalato, mi arrivava fino ai piedi, sembravo un Gesuita, ma  l'inverno era troppo severo per fare il vanitoso! .Quei "bus" all'interno odoravano di CURRY, all'epoca utilizzato come condimento  soprattutto per gli emigranti asiatici, ma successivamente diffuso in tutte le cucine inglesi.  Il venerdì la busta paga era sempre benvenuta - in Inghilterra gli stipendi agli operai erano sempre pagati settimanalmente - ed io  per alleviare le pene, il sabato mattina mi vestivo meglio, prendevo il treno per Londra e soggiornavo in un alberghetto a Russell  Square.   Smog o non smog gironzolavo per Londra con tanta avidità di conoscenza, con la sotterranea (the Tube) così pratica, per  raggiungere ogni posto, musei, exhibitions, e quant'altro. Passeggiavo lungo il Tamigi e ogni sabato pomeriggio prendevo un caffè  espresso al GAGGIA BAR a Soho dove c'era una ragazza Italiana tanto simpatica che mi attirava.   Mi sentivo timido ma un giorno mi feci coraggio e gli chiesi "dove vai questa sera?" lei ridendo rispose "ma io sono sposata e ho  due figli" !!   A Napoli dicono  A FORTUNA DO POVERE UOMME. La domenica sera prendevo l'ultimo treno per Bedford e facevo appena in tempo per andare a lavorare.  Alle sette e trenta nella mensa della fabbrica c'era il breakfast, tutti in fila, ed era veramente il miglior pasto della giornata; la  ragazza che serviva tutta vestita di bianco mi regalava solo un sorriso, meglio che niente, no?  Dopo poche  settimane di tribolazioni una mattina nella fabbrica  passa una faccia familiare, Mr. Miller il Manager, colui che quando  andava a Napoli per reclutare operai, si faceva sempre una  scappata ai negozi di Gutteridge per incontrare mio padre in  inglese. Mi riconobbe e vedendomi un po' semi rassegnato da quel  lavoraccio mi disse "are you happy Mr. Matassa?" ed io con voce  sfiatata risposi "not too bad" (non c'è male). Lui disse "ci credo  poco, domani mattina vieni nel mio ufficio". Mi trovò una  sistemazione in officina, un angolo tutto mio con le attrezzature,  una meraviglia. Il "Foreman" ( Capo officina) mi accolse con tanta  gentilezza. La paga sindacale per i meccanici era la migliore.  C'erano una dozzina di banconi con ciascuno il proprio operaio, tra  cui un bolognese, tale Baldone, che aveva un po' di anni più di me,  ex prigioniero in Kenia, con tanta esperienza ne sapeva di tutti i  colori e mi sfotteva sempre.   Un giorno mi propose di guadagnare extra facendo lavori nei week  end, e mi portò anche in una scuderia dove c'erano tanti cavalli e  una montagna di escrementi con una carriola accanto e una  ragazzona dalla faccia dominante. Io chiesi cosa dovevo fare e lui, ammiccando alla ragazza, mi rispose "tuttofare e anche  scopare" ridacchiando della mia ingenuità.  Andavo spesso al cinema, mi sforzavo di capirci qualcosa e quelle poltroncine erano così accoglienti che ci avrei passato tutta la  notte; prima che lo spettacolo cominciasse, da sotto il palco saliva una musica di organo che risuonava in tutto l'ambiente.  Guardando indietro a Napoli quando le proiezioni erano bianco e nero e venivano disturbate dal fumo ... Il giovedì andavo a teatro,  dove l'atmosfera era molto gradevole e c'era tanto da ridere fra un comico sdentato e un ventriloquo. Impeccabilmente  completavano la serata una mezza dozzina di ballerine veramente professionali, specialmente col tap dancing, sempre bellissime  operavano per questi teatri di provincia che usavano per fare tirocinio prima di sbarcare a Parigi o New  York. Ma che gambe  bianche, sembravano verginelle venute dal "garden of eden" altro che quelle mezze sfatte che avevo visto al salone Margherita a  Napoli.   Del cibo inglese è meglio non parlare; vivacchiavo alla meglio con  ristorantini e snack bar. Dimenticavo di dire che i Napoletani non  emigravano spesso e da noi ce n'era uno solo e per tanto tempo  condivisi con lui la stanza a Nelson Street. Si chiamava Raffaele  Malcangi, lavorava e studiava pure, e mi sembrava colto, sorrideva  sempre e non si lamentava mai.   In seguito seppi che si sposò con una signorina inglese. Sono  passati più di cinquant'anni da che lasciai Bedford e non ci siamo più  visti, ma a Natale ancora ci facciamo una telefonata e io penso che  dopo tutto siamo ancora vivi.  Un giorno Baldone mi fece un'altra proposta per lavorare tre ore al  sabato pomeriggio, in un club per tiro al piattello, su una torretta alta  tre metri. Il capo dei partecipanti conversava sempre con me e aveva  capito il mio problema per la casa.   Un giorno mi diede l'indirizzo di un grande negozio al centro di Bedford in cui avrei potuto risiedere all'ultimo piano in un ambiente  dove erano riposti tanti indumenti femminili, cuscini, coperte e una mezza dozzina di manichini, praticamente un deposito. Alla  porta d'entrata vidi una scritta poco accogliente: "no strangers please". Ma poi mi consolai con il mio spazio.   In fondo  a tutto c'era una stanzetta con i servizi necessari, un bel letto e una cucinetta piccolina, elettrica, però io dovevo pagarmi  l'elettricità' inserendo sei scellini nel contatore per la stufetta per riscaldamento. L'affitto non dovevo pagarlo, ma in cambio facevo  il garzone quando tornavo dal lavoro la sera: Sotto c'era questo grande negozio, con una mezza dozzina di ragazze tutte eleganti  che sembravano vallette sempre piene di attenzione per i clienti.   Avevo anche il compito di portare i panni su e giù come mi diceva la manager Jane (nome di fantasia) e dovevo anche sistemare  parecchi scatoloni in un cortile coperto. Oltre alla sera dei giorni feriali potevo dedicarmi a questi lavoretti anche la domenica mattina, rinunciando alla solita gita a Londra,  e la signora mi dava le direttive e cambiava la vetrina.   A dir la verità un po' mi veniva da ridere e mi sentivo come QUASIMODO, e fra l'altro lassù non c'era privacy perché non c'erano le  chiavi e Jane appariva all'improvviso e io dicevo "ecco pronto Quasimodo!" Come se la rideva.   Là dentro non avevo niente di valore, solo una piccola radio preziosa dove cercavo sempre i programmi italiani in onde corte ma  ricevevo solo fischi e pernacchi. La televisione era ancora rara nelle case e quando faceva freddo le coperte non bastavano mai.    Quando era passato più di un anno, facendomi due conti potevo dire che la mia situazione finanziaria era fiorente, grazie ad un  insieme di fattori: la buona paga alla fabbrica, le ore al tiro a piattello e il risparmio dell'affitto da non pagare.   Inoltre avevo organizzato un'orchestrina che chiamai Complesso Vesuvio.  Eravamo io alla batteria, l'abruzzese Antonio alla fisarmonica (era speciale, era la chiave delle canzoni, le sapeva tutte), il siciliano  E. Filippo alla trombetta, e un voluminoso nero del West Indie al contrabbasso, che si muoveva a tempo di musica, ma si infuriava  quando i clienti ci chiedevano di suonare LAZZARELLA e urlava "Oh not it again!", ma erano tutti impazziti per questa canzone  napoletana, specialmente i Polacchi che ci frequentavano.   Ci volevano dappertutto per sposalizi, anche la comunità polacca da Wellinghborough e tante volte sotto la chiesa Italiana San  Peter a Londra, luogo di raduno per gli emigranti. Finché per evitare di viaggiare sempre, dal momento che ero sempre dover  affittare e guidare l'auto, prendemmo in affitto un locale permanente a Conduit Road in città.   In definitiva tutto il mio tempo era ben utilizzato. Avevo capito che  era meglio di stare zitto sulla mia abitazione perché ne ero geloso.  E Baldone mi chiedeva spesso perché non facessi più tanti viaggi  a Londra. Avevo tutto quello che volevo e i soldi aumentavano sul  mio conto alla Midland Bank. Spesso arrivava Jane, sempre vivace con quel sorriso nascosto  "Hallo Robertooooo" ed io la vedevo più mediterranea che  anglosassone, capelli neri ed uniforme nera con una grossa  cravatta bianca.   Nel negozio la chiamavano Mrs. Cooper (cognome di fantasia);  aveva due anni più di me, e quando acquistai un poco di  confidenza con lei le domandai se era sposata e ciò la disturbava  molto e anche se sapeva che io sapevo rispondeva sempre "no  comment please"; insomma non voleva parlarne e io mi  domandavo perché.   Una domenica mattina le chiesi se potevo offrirle un caffè e tirai  fuori la tipica caffettiera piccolina nostrana e lei mi prendeva in giro  "cosa fai con questo giocattolo" e rideva, abituata come tutti gli inglesi a tazze grandi di caffè solubile sciacquato!   Poi venne ancora l'estate e cominciai a fare qualche nuotata nel fiume che scorreva lentamente, generalmente di domenica  pomeriggio e non sapevo che il posto che io frequentavo era proprio di fronte alla zona residenziale dall'altra parte della sponda,  dove abitava Jane. Lei  non si avvicinava e non voleva farsi vedere. I mesi passavano e mi ero abituato a questo stile di vita e non  volevo fare altro perché la sera si suonava sempre fino a mezza notte e avevo anche bisogno di riposo. Un'altra domenica  "Robertoooo" eccola dietro la porta per dirmi che se ne andava  a casa, ma quando mi vide con la chitarra in mano, mi chiese di  farle sentire qualcosa; le cantai brevemente  "nu bacillo piccirillo", un valzer lento da una canzone napoletana, e dovetti spiegarle il  testo che le piacque tanto. Poi fu lei a volermi canticchiare qualcosa e io l'accompagnavo per quel valzer lento The Barcarolle of Offenbach addirittura in  francese. Poi mi chiese di qualche altro motivetto, allora io così ironico gli intonai "sull'acqua del ruscello si specchia una bambina   alza la gamba etc" Lei voleva sapere il teso, io le dissi che era un po' volgare ma lei insisteva, si fece avanti quasi alzandosi la  veste, e giù risate. Aveva gran senso dell'umorismo e io ancora di più.  Mi rammaricavo di non poterla portare fuori a un ristorante o al teatro e neanche al cinema, mi rispondeva sempre che non era  possibile. Un'altra domenica venne su e mi chiese di portare tanti vestiti giù nel negozio e anche due manichini, dicendo con ironia "are they  in competition with me?" Allora io ne presi una con accortezza per non spezzare le mani di carta pesta, per i fianchi e … finalmente  successe il finimondo e tutto quanto non mi sarei mai aspettato peccato e peccatorium nostrum amen!   E Robertooo e Robertooooo passavano i mesi e non me ne accorgevo neanche. Venne ancora l'inverno e soffrivo il freddo lassù e  un giorno Jane venne su con un piumone tutto bianco e io volli assolutamente pagarlo, perché lo aveva preso dal negozio. E  quando la vedevo stesa su quel piumone bianco con quella carnagione bianca e i capelli neri posso solo rivederla nei dipinti di  Amedeo Modigliani. Tante volte non se ne andava perché era libera di farlo fino alla mattina io scendevo a prendere il "carry out",  generalmente pesce e patate.  Fra l'altro, il lunedì sera andavo al collegio ove c'erano i corsi di lingua ( English for foreigners ) che seguivo con impegno anche se  purtroppo avevo sempre le solite difficoltà di comprensione. Mi sentivo capace ad apprendere, ma durante le letture non andavo  bene, a causa della mia perenne distrazione e così mi beccavo i soliti richiami "ascolta, e stai a sentire, etc. ). Ma questo mi è successo spesso durante la mia vita, anche in altri ambiti; debbo precisare che anche quando andavo in Chiesa  per le funzioni, non riuscivo mai a concentrarmi, e così in tante altre situazioni, insomma un mio particolare "difetto di fabbrica".  Una volta ho fatto un viaggio da Londra a Singapore con un amico fotografo che mi parlava di cose che mi interessavano, ma  dopo un po' non riuscivo a concentrarmi sugli argomenti ed a stargli dietro.   Ma torniamo in quella classe di English for foreigners.  Eravamo solo in due italiani, poi c'erano altre persone provenienti da tutta Europa, generalmente ragazze svizzere, tedesche,  olandesi e francesi che venivano con un contratto di sei mesi per ottenere il certificato di lingue riconosciuto in Europa per impieghi  più ambiziosi. Stavano con famiglie facoltose dove spesso lavoravano come baby-sitter.   Io le invitavo a ballare e non facevo pagar loro il biglietto d'entrata, avevo Marco Vigliviello che organizzava tutto nella sala da  ballo, dove tutto funzionava a dovere, niente ubriachi e lui sempre pronto per ogni cosa nella comunità Italiana. Anche lui e' stato  caro amico da più di cinquant'anni anche se da quando abitiamo in posti diversi ci telefoniamo solo a Natale, E lui ne ha saputo  poco di tutto quello che combinavo con le ragazze!  Avevo un liaison con R. S. (ometto il nome), una ragazza svizzera che frequentava il corso serale ed era una meraviglia; e io  pensavo chissà quale sarà quella buona, stavo andando verso i trent'anni. Jane non sapeva nulla di questa scappatella e mi  sentivo come un farabutto!   La sua famiglia in Svizzera fece il possibile per allontanarla da me, a meno che io non fossi stato disponibile ad andarmene a  Schwyz dove  avevano un albergo in cui avrei potuto lavorare.  Ma io sapevano come la pensavano gli svizzeri a proposito di noi emigrati, sempre pronti a criticarci, a volerci insegnare  l'educazione e così via; io non volevo fare più il cittadino di seconda classe, stavo così bene in Inghilterra, dove mi sentivo trattato  come gli altri e così salutai gli svizzeri e lasciai perdere.  Ma il viaggio che avevo fatto in Svizzera mi procurò problemi seri con Jane. A lei avevo detto che ero partito per una vacanza,  lasciandole intendere di essere tornato a Napoli.  Ma dopo che fui tornato mi accorsi che lei aveva il muso lungo e non capivo dove avessi sbagliato. Presto detto, Jane aveva  notato gli adesivi del PALACE HOTEL LUCERNA e anche di Locarno incollati sulla mia valigia! C'era poco da nascondere ormai,  ero rimasto fregato, per quelle due settimane "gloriose".   Poveretta, non mi disse una parola ma era scoppiata in lacrime. Io non sapevo cosa dire, ma cominciavo anche a pensare che  avevo trenta anni e che lei cosa poteva offrirmi a lungo termine? Ero imbarazzato con me stesso e non sapevo cosa dire e cosa  decidere. Quale sarebbe stata la soluzione, questa storia in fondo era andata avanti per quasi tre anni. Le avevo chiesto più volte  se lei aveva una soluzione migliore, dove poter andare, ma lei diceva sempre che era felice  così con me, e che non poteva lasciare il marito.  Un giorno trovai Jane che mormorava su Kingston e la Jamaica, come l'ideale per spiagge e  clima tropicale, e capii che voleva dirmi qualcosa di importante. Insomma Mr. Cooper aveva  accettato una "position" per il ministero delle colonie proprio a Kingston e Jane mi rivelò tutto e  che presto avrebbe dovuto seguirlo. E tornava sempre a dire cosa dovevamo fare e io  guardavo il soffitto di quella casa e mi sentivo ancora come Quasimodo.  Ma cosa potevo fare? Dissi chiaramente a Jane "fai il tuo dovere e vedrai che il tempo  aggiusterà tutto". Naturalmente pochi mesi dopo anche io sarei andato via da Bedford, avendo quella benedetta  missione da compiere su in Scozia. Jane era molto disturbata da questa mia decisione e  ripeteva e... <Not again with that Scotland> ( non nominarmi ancora questa Scozia ).  Praticamente lei ne aveva avuto abbastanza di sentire della mia destinazione, ma soprattutto  sembrava non accettare la nostra inevitabile e definitiva separazione: lei in Jamaica, io in  Scozia e tutto finito. Per un po' di tempo prima di partire restava con me fino alla mattina, poi a  febbraio prese la decisione di partire per Kingston. Io rimasi molto male dopo tutto, le sue  lettere diventavano sempre più rare e anche io non le rispondevo tanto spesso. Piano piano  tutto finì per sempre.  Da Winchester, Inghilterra, per l'Eco di Roccasecca, Roberto Matassa