L’Eco di Roccasecca
Sito Promozionale di Cultura del Basso Lazio dell' Associazione onlus PRETA Via Sotto le mura snc - 03041 Alvito (FR) p.i. 02194120602 CIOCIARI.COM   © pretaonlus 2000-2010 - ciociari @ pretaonlus.it
Anno 18, n. 86		                                            Maggio 2013 Anno 18, n. 86		                                            Maggio 2013 Bandiera bella bandiera santa  Dedicato alla cara memoria del Maestro Rosario Pennisi  Era il 1958 e iniziavano i preparativi per solennizzare il centesimo anniversario dell’unità d’Italia con manifestazioni che avrebbero avuto il loro culmine solo tre anni più tardi. Intanto però tutti si preoccupavano di non farsi trovare impreparati. Anche a Roccasecca c’era qualcuno che si impegnava cercando di inventarsi qualcosa di decente per quella importante ricorrenza e ciò accadeva probabilmente in tutti gli ambienti. In quello scolastico ad esempio, era stata organizzata la “Festa della bandiera” e tutto il corpo insegnante delle scuole elementari (a Roccasecca Scalo c’erano solo quelle) si arrovellava nel cercare un’idea originale, capace di sbaragliare  gli altri nella manifestazione che si andava preparando. Il mio Maestro era uno di questi e lo vedevamo sempre più indaffarato a pensare cosa inventarsi per fare buona figura. Alla fine decise di scrivere una poesia che probabilmente non è quanto di più originale si possa immaginare, per lo meno oggi che siamo in abituati a scrivere con il computer che in mille modi aiuta a comporre correttamente una frase, una pagina o  qualsiasi altra cosa. “Taglia, copia, incolla, sposta, modifica” sono strumenti di “word” che tutti più o meno conoscono perché consentono a chiunque abbia un po’ di tempo ed un minimo di buona volontà di scrivere qualcosa di decente, per lo meno sotto l’aspetto formale.  Altra cosa però è produrre idee, pensieri o costruzioni d’ingegno originali. Quelli il computer non li può fornire e bisogna essere in grado di formularli in modo autonomo. Ma il mio Maestro di idee e di tutto il resto ne aveva da vendere. A quel tempo l’unico strumento disponibile per riversare su di un foglio di carta bianca idee, pensieri, sentimenti oppure calcoli e costruzioni d’ingegno era la penna con il suo bravo pennino metallico. Quello che andava intinto nella boccetta dell’inchiostro facendo poi attenzione a scrivere senza macchiare il foglio. Il mio Maestro non lo faceva, nel senso che non intingeva il pennino nel calamaio, essendo solito usare una sua stilografica, che ancora ricordo, e che chissà quale ricorrenza o avvenimento avrà rappresentato per lui. Eh già, perché allora le penne stilografiche erano un qualcosa di importante, si ricevevano in dono magari per il diploma o per la laurea e poi si custodivano accuratamente. Le persone più preparate ed interiormente ricche, qual era per l’appunto il mio Maestro, le usavano per il piacere di farlo ma senza ostentazione. Le altre, quelle che magari nella loro vita avevano fatto scelte diverse privilegiando magari gli aspetti più materiali, normalmente ne avevano più d’una e le ostentavano tutte nel taschino della giacca. Specie la domenica, quando indossavano il vestito buono. Sarà anche una brutale schematizzazione, ma a quel tempo più o meno era così.  Al mio Maestro quella penna invece serviva per davvero e non solo per correggere i compiti o compilare le pagelle dei suoi alunni.                              Il maestro Rosario Pennisi con la moglie Rosaria e il piccolo Tonino.  Serviva anche per scrivere lunghe lettere al padre in quella sua Sicilia così bella e così lontana. Lo dico con certezza anche perché talvolta, sapendo che avrei fatto le cose con attenzione, mi incaricava di fare un salto all’ufficio postale che si trovava in Via Piave, sul lato sinistro andando verso la stazione, e di spedire per conto suo una raccomandata. L’indirizzo era sempre lo stesso e non lo dimenticherò mai “Via Galatea 21-23 Acireale – Catania”. Niente CAP che è un’invenzione recente. Dopo aver compiuto la mia missione tornavo a scuola contento e bastava uno sguardo per fargli capire che la missione era compiuta e che poteva stare tranquillo, almeno fino alla prossima raccomandata. Con quella sua penna stilografica il Maestro scriveva quindi con calligrafia chiara ed armoniosa, assolutamente comprensibile anche se minuta, e con essa aveva stilato anche la poesia per la Festa della bandiera che sarebbe stata rappresentata a  Roccasecca Paese.  Qui c’erano infatti il Municipio, la Direzione didattica, una grande chiesa di pietra e tutti i luoghi dove fare le cose importanti che però a me, a quel tempo, non interessavano più di tanto. A me bastava vivere allo Scalo ferroviario per essere felice. Lì avevo la mia casa, la famiglia, la scuola, gli amici, la ferrovia e la domenica la chiesa, anche se era solo una vecchia baracca prefabbricata lasciata dagli Americani prima di andarsene. Insomma tutto quanto, a quel tempo, poteva chiedere un ragazzino di dieci anni per essere felice. Mi incantavo a guardare i treni che andavano avanti e indietro sbuffanti a poche decine di metri dalle finestre di casa, senza neanche fare troppo rumore. Poi, fatti i compiti, correvo a giocare con gli amici per strada o nei campetti attorno a casa finché papà o mamma non chiamavano, quand’era ormai buio e le rare luci delle campagne s’accendevano tremolanti nella notte. Ormai però erano capitati quei festeggiamenti e non ci si poteva tirare indietro specie se era il maestro a chiedere di fare qualcosa di speciale. Stavolta aveva scelto me anche se altri, “di bravi”, nella mia classe certo non ne mancavano. Debbo dire comunque, e ad onor del vero, che se l’avesse chiesto a qualcuno di loro mi sarebbe dispiaciuto da morire e non avrei fatto altro che cercare un’altra occasione per mettermi in luce.  Non “in mostra” ma in luce si, questo mi piaceva.  “Renzo tu sei ambizioso!” mi diceva il Maestro quando lo riteneva necessario e lo faceva con una sorta di ammirazione ma anche di preoccupazione, ben consapevole del fatto che l’ambizione può essere un motore potente per l’affermazione umana e sociale, ma che deve essere controllata. In primis dovrebbero vigilare i genitori e poi i maestri che hanno la responsabilità di insegnare ai giovani non solo a scrivere e far  di conto, ma anche, se le possiedono, trasmettere le regole fondamentali della vita. Quelle parole, come tante altre pillole di saggezza che il Maestro donava a chiunque, io le ascoltavo però come un monito, mai come un rimprovero. Mi sono sempre servite per condurre la mia esistenza con prudenza e non ne sono pentito.  Ma torniamo alla poesia che era proprio bella, filava via liscia come l’olio con quel poco di retorica che non guastava e che a quei tempi, forse, era anche richiesto.  Credo che alla fine il maestro l’abbia scritta di getto su foglietti formato quinta elementare, staccati dal centro di uno di quei quaderni neri con la costa rossa che si usavano allora. Era, come ho detto, bellissima e lui vi aveva probabilmente riversato tutti i valori in cui credeva e molte delle cose in cui sperava.  Aveva un unico difetto: era lunga! Quando mi diede tutti quei foglietti riempiti di versi rimasi esterrefatto e non avrei mai creduto di riuscire ad impararla, né tanto meno di poterla recitare dignitosamente il giorno della manifestazione.  Pensavo che il Maestro stavolta mi avesse davvero sopravvalutato e che la tragica fine di tutti i miei sogni e di tutte le mie “ambizioni” fosse ormai arrivata. Iniziai però subito a leggerla. Lo feci la stessa sera del giorno che me la consegnò, dopo cena, rannicchiato sulla sdraio che avevamo in camera da pranzo, vicino alla radio che rimase spenta. Dimenticai, quella sera, di guardare attraverso i vetri i treni che passavano con le loro vaporiere sbuffanti sui binari poco distanti. Me ne dimenticai anche la sera successiva e tutte le altre che vennero in quell’inverno del 1958. Finché non l’imparai. “ Il giuramento del piccolo Italiano” s’intitolava ed i primi versi erano : “Bandiera bella, bandiera santa, per i martiri che s’immolarono sognandoti bella e sventolante al bel sole d’Italia…” Gli altri non li ricordo, ma ricordo come fosse ora i sentimenti che suscitarono in me. Erano parole in cui il Maestro aveva messo, come ho già detto, tutto il suo sentire che, pian piano, divenne anche il mio ed alla fine, durante le ultime prove nella nostra scuola, fu come se quella poesia l’avessi scritta io e chi la recitava fosse lui, ritornato bambino. Finalmente arrivò anche il giorno fatidico e Stefano, con la sua vecchia corriera, ci portò dalla scuola dello Scalo fino su, a Roccasecca Paese, dove tutto era pronto per  la solenne manifestazione. Era una fresca mattinata del mese di maggio, il cielo sereno, l’aria limpida e tutti erano contenti.   Tutti tranne me che ero un po’ preoccupato per quanto mi attendeva. Poi, dopo essere scesi sulla piazza del Paese, la scolaresca se ne andò verso un grande edificio grigio. In fila per due, coi maestri davanti come allora usava.                             Piccoli alfieri dell’Unità d’Italia (sulla destra l’autore dell’articolo)   Dopo alcune cerimonie ci fecero sistemare in una sala, che a me parve immensa, dove già c’erano centinaia di bambini vocianti con gli insegnanti che si affannavano a tenerli buoni. Poi le Autorità civili e religiose, i giornalisti, qualche curioso e, alla fine, il grande palco che aspettava, inesorabile, i “disgraziati” che si sarebbero dovuti “esibire”. Iniziarono i ragazzini piccoli, quelli delle prime, con poesie e recite un po’ melense, aiutati dai loro maestri che sostenevano chi, tradito dalla tenera età ed anche dall’emozione, non ricordava più le parole. Ma furono bravi e riuscirono a condurre fino in fondo la loro “esibizione” raccogliendo gli applausi di amici, genitori e maestri. Poi fu la volta degli altri e continuò così per tutta la mattinata finché non venne il mio turno. Ricordo che salii su quel grande palco senza tradire alcuna emozione e che davanti a me c’era l’immensa sala degli alunni, dei maestri e delle Autorità. Finestroni enormi alla mia sinistra guardavano verso la campagna soleggiata e sapevo che laggiù c’era lo Scalo ferroviario. Vi gettai uno sguardo sperando almeno di riconoscere casa mia, ma non ci riuscii, non distinguendo neanche la ferrovia che pure era così grande. Tutto si mischiava nei miei occhi e nella mia mente in quel mattino. Tornai a volgere il capo all’immensa sala, e in un solo istante guardai tutti intensamente negli occhi.  In quel momento “realizzai” che se non ero solo “un ambizioso”, ma “uno bravo”, era giunto proprio il momento di dimostrarlo. Presi allora tutto il fiato che potei per attaccare bene, come il Maestro mi aveva insegnato. Lui stava in basso, sotto al grande palco, e mi guardava stringendo nel pugno quei foglietti di quaderno di quinta dove c’erano tutte le sue fatiche, i suoi sogni, le sue speranze. Mi sentivo carico, tremendamente carico e lo guardai anch’io, ma solo per un istante, come facevo solitamente quando tornavo dalla posta. La sala intanto si era zittita e mi scrutava impaziente anche perché ero uno degli ultimi e qualcuno, stanco, voleva tornare a casa. “Bandiera bella bandiera santa!” furono le parole con cui iniziai a voce alta e le scandii bene perché tutti ascoltassero quanto il mio Maestro aveva scritto. Un silenzio assoluto s’impadronì allora dell’immensa sala che rimase in attesa, come ipnotizzata. “Per i martiri che s’immolarono sognandoti bella e sventolante al bel sole d’Italia…” continuai, e così fino alla fine a voce piena, pronunciando bene e senza fretta quei versi affinché tutti li udissero con chiarezza e ne capissero il significato più profondo. Dall’alto del grande palco riuscii, in quella mattinata di maggio, a trasmettere miracolosamente l’ emozione dei valori in cui il Maestro credeva e delle cose in cui sperava. Poi la poesia finì e per qualche istante nessuno osò fiatare, io guardai tutti loro, fisso negli occhi, e tutti loro guardarono me, come increduli. Poi si scatenò l’applauso e fu quanto di più entusiastico e travolgente avessi mai udito nella mia breve esistenza ed anche dopo.  Tutti battevano le mani, Autorità, insegnanti, giornalisti, curiosi e gli alunni di ogni classe ed età. Applaudivano quelli dello Scalo e quelli del Paese, tutti insomma, ammaliati per mio tramite dalle parole del Maestro. Alla fine lui salì sul palco a prelevarmi perché anch’io ero rimasto come ipnotizzato dalle parole che avevo pronunciato e dai sentimenti che avevo interpretato.  Non mi fece riaccomodare in platea, ma mi portò fuori, nel bar più bello del Paese dove mi offrì la colazione più ricca che avessi mai consumato coprendomi di  complimenti e di baci. Rideva e piangeva dalla gioia. Gli echi di quella mattinata del 1959 durarono a lungo a Roccasecca Paese, ed anche giù allo Scalo, e furono registrati dalla stampa locale che vi dedicò uno spazio insperato. Poi si attenuarono ed alla fine si spensero, come sempre accade e come è giusto che sia, per il sopraggiungere di altri fatti ed accadimenti. Ma non del tutto. Rimasero infatti vivi in me per tutta la vita ed anche nel Maestro che senz’altro non dimenticò mai quel giorno di primavera quando quella poesia, scritta come lui sentiva, fu recitata proprio come avrebbe voluto. E tutti avevano capito.  Renzo Marcuz