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L’Eco di Roccasecca
L’omino nero Dedicato a mio padre  Le bestemmie e le imprecazioni sempre più alte e sempre più violente si propagarono nell'aria ferma di quel tranquillo mattino e mi procurarono un brusco risveglio. Chi mai poteva essere ad inveire, a quell'ora, con tale e tanta disperata violenza, contro se stesso, il proprio destino, Dio e gli uomini tutti? Il frastuono provocato da quell'unica voce proveniva dal lato della ferrovia dove normalmente, e tranne ovviamente quando il treno passava, tutto era silenzio. Poteva essere il mese di maggio, l'aria era calma e ferma e un sole giovane, appena sollevatosi da dietro al monte Cairo, illuminava la campagna tutta, fino alla linea azzurrina dei monti. Era certamente domenica anche perché, a parte quelle urla strazianti, tutto fuori era silente e rari treni si incrociavano sul piazzale ferrato della stazione. Sembrava quasi di vivere uno di quei momenti prima dell’inizio di una festa, quando tutto si ferma e, per un attimo, attende. Intanto, nelle abitazioni del Palazzone, le famiglie si apprestavano alle attività della giornata, magari ad andare a messa. Se ne percepivano i rumori, ma da mille indizi si capiva che tutti, quel mattino, erano distratti, certo turbati dai gemiti e dalle urla di quell'anima disperata. Quando, finalmente, trovai il coraggio di avvicinarmi alla finestra e di spiare attraverso le fessure dell'avvolgibile vidi, in basso, un uomo piccolo, vestito di nero, con un fazzoletto rosso al collo e, sul capo, un berretto che sembrava di camoscio nero, con una visierina di plastica dello stesso colore. Pareva quasi uno di quei soldatini americani che vedevo il pomeriggio quando scendevo a guardare la televisione dalla Signora Concetta e davano Rintintin.    Un soldatino del forte, di quelli semplici però, che avevano i loro berrettini fatti proprio in quel modo. Con le maniche della camicia rimboccate fino ai gomiti, e le mani e gli avambracci sporchi di grasso, quell'omino si agitava avanti e indietro sulla passerella di una locomotiva a vapore Una di quelle gigantesche, nere e lucide, che ogni giorno passavano davanti alle finestre di casa mia dopo essersi annunciate con un lungo sbuffo di fumo candido dalla parte di Aquino. Quelle che venivano da Cassino, s'intende! Ora, invece, la locomotiva era ferma, proprio sotto alle nostre finestre, distante da me neanche una ventina di metri e con la caldaia al minimo, che a fatica si sentiva.  Era parcheggiata sul binario morto che c'era tra il Palazzone e la torre dell'acqua, proprio vicino al rifornitore, quella specie di rubinettone, gigantesco anche lui, sovrastato da un lume messo proprio dove iniziava il braccio orizzontale che, a sua  volta, si poteva far ruotare per portarlo in corrispondenza dell'imboccatura dei serbatoi. “Colonna idrica” è la sua denominazione tecnica, ma a me, da piccolo, sembrava solo …  un rubinettone.  Poco distante, al di sopra di una colonnina di acciaio nero alta circa un metro, un volantino, anche lui di acciaio nero.  Lo so che avrei dovuto dire “esso”, dato che si tratta pur sempre di un oggetto. Ma a me è piaciuto… umanizzarlo. Ruotandolo, si faceva uscire un getto d'acqua, potentissimo, con il quale si riempivano i serbatoi della locomotive a vapore o dei carri cisterna che venivano avvicinati. Quando l'acqua arrivava formava un getto bianco, poderoso, carico di pressione, che riempiendo quegli enormi serbatoi rimbombava con un rumore cupo, terrificante. Quando invece cadeva al suolo, nero di carbonella esausta, perché il volantino era stato aperto troppo presto o rinchiuso troppo tardi, allora mi sembrava che quell'acqua diventasse come un piccolo Niagara, cosi poderoso e fragoroso che, se qualcuno ci fosse passato sotto, sarebbe stato in grado di gettarlo a terra. Se quello ci fosse rimasto, sotto, perché l'impeto di quella colonna malefica gli impediva di rialzarsi, allora sarebbe potuto anche affogare. Questo, perlomeno, era quanto i grandi mi avevano spiegato e quindi guaì a giocare con quel volantino! Ma torniamo all’omino che era magro, coi capelli neri ed irsuti e che sbucavano di sotto a quel berrettuccio lucido fino a coprirgli la fronte e, quasi quasi, anche gli occhi spiritati. Il suo volto scavato era arrossato certamente per la consuetudine a lavorare vicino alla fornace di quella sua macchina, ma anche, forse, per qualche sorso di vino tracannato in più quel mattino, magari per darsi coraggio. Da qualche particolare, o da qualche frase udita, non so, capii infatti che quello doveva essere il suo ultimo giorno di lavoro e che quelle ore erano senz'altro le ultime concessegli per prendersi cura del suo amato mostro d'acciaio. Da domani non sarebbe stato più suo e quei numeri gialli, pitturati sulla placca rossa, proprio vicino ai respingenti, sarebbero stati dati a qualcun altro, negli Uffici del Deposito Locomotive di Cassino.   Forse a uno nuovo, chissà. Ma sarebbe stato capace, quest'altro, di tenerla in ordine, la sua macchina, provvedendo con mille attenzioni a curarla e a custodirla ben bene lubrificandola in tutti i punti necessari con le giuste dosi degli specifici oli e dei diversi grassi?  Ricordo che ogni tanto mi soffermavo a guardarli, quegli omini neri, quando venivano a fare manutenzione alle loro macchine su quel binario morto, proprio tra la torre dell'acqua e il Palazzone, ed avevano barattoli di grasso di diverso colore: giallo, azzurro ed anche verdino. Lo passavano sui pistoni lucidi e dovunque era necessario cantando e fischiando come merli a primavera ed usavano batuffoloni di filo dai mille colori che poi diventavano tutti neri, unti e bisunti che non si potevano sfiorare. "Cascame" venivano chiamati quei batuffoloni che quand'erano puliti non era neanche brutto toccare e ce n'erano montagne nei magazzini del vecchio Deposito Locomotive di Cassino dove lavorava anche papà. Ed avrebbe avuto, quest’altro, l’accortezza  di controllare sempre, ed al momento giusto, tutte le boccole, le guarnizioni e i paraoli vari riuscendo a capire immediatamente quelle che stavano per mollare e provvedendo a sostituirle con altre di gomma nuova; nera, bella, morbida e compatta insieme?   Anche papà usava quelle guarnizioni e ne aveva sempre tre o quattro infilate nel manico lungo e sottile di un martelletto che usava nel suo lavoro.  Con quel suo martelletto colpiva tutte le boccole metalliche dei carri e delle carrozze per capire se erano integre e se tutto era a posto, ma veramente a posto perché papà scherzava poco nella sua attività! Se tutto era in ordine papà dava il suo “Nulla osta” ed allora l'omino nero di turno, che quel giorno, o quel mattino, o quella notte, come tutti i giorni, tutte le mattine e tutte le notti che Dio mandava ed avrebbe mandato sul minuscolo Posto di Verifica di Cassino, aspettava con ansia il suo responso, allora, solo allora, dico, quell’ omino nero poteva anche rilassarsi.   Custodito accuratamente il “Nulla osta” si raddrizzava tutto, sistemava ben bene sul capo il suo berrettuccio, e dopo aver controllato i segnali giusti dell'immenso piazzale ferrato davanti a sé, tirava una cordicella che faceva uscire dalla vaporiera un fischio lungo ed acuto. Poi, piano piano, dava vapore e tutti i pistoni cominciavano a muoversi e le grandi ruote di acciaio, ed anche quelle piccole, tutte dal fianco pitturato di rosso, cominciavano a girare, prima lentamente poi sempre più velocemente, e la vaporiera trascinava in avanti tutta la colonna di carri o carrozze che era stata attaccata al suo gancio. Potevano essere anche cento, o anche mille i pezzi attaccati a quel gancio, e la locomotiva poteva essere anche vecchissima ma ce la faceva sempre. Era un punto d'orgoglio, anzi d'onore, per quelle vaporiere, e per quegli omini neri, farcela sempre!  Andai di controvoglia, quel mattino, alla Messa di Don Raffaele nella vecchia chiesetta di legno vicino alla scuola, e lungo la strada parlai poco con gli amici che mi accompagnavano. Poi, come sempre accadeva, i diversi momenti della Celebrazione Eucaristica e, soprattutto, la predica e le occhiatacce del vecchio Parroco riuscirono a distrarmi facendomi dimenticare completamente l'omino nero e tutto il suo strepitare. Non ci pensai più neanche tornando a casa e neanche dopo finché un giorno, che ero andato a giocare su quella striscia di terra nera di carbonella esausta vicino al binario morto ed al rifornitore, non vidi, gettati da una parte, un fazzoletto rosso e una bottiglia di vino mezza vuota.    Allora tutto mi tornò alla mente.  Renzo Marcuz 20 agosto 2013
Anno 19, n. 91                                            Giugno 2014
Foto con Marco, alias “Gek”,  vicino alla vasca dei pesci della stazione Andavo sempre lì, a giocare con Gek.,dietro c’è proprio… il “rubinettone”
Eccolo, un omino nero,mentre “cura” la “sua” macchina  (immagine da Wikipedia) 
Eccolo papà che era anche lui, un poco, un omino nero