Leggende misteriose,  racconti e filastrocche  a Roccasecca e dintorni  A proposito di storie e leggende che hanno nel Mistero la loro caratteristica principale, ci addentriamo nei meandri dei testi presenti nella nostra biblioteca ed anche nei ricordi personali per offrirvi qualche altro elemento, cominciando con una filastrocca nota soprattutto nella zona di Arce.   Il Cavaliere, la Morte e il Diavolo Albrecht Durer,  1513   Le filastrocche fanno parte di quel patrimonio tramandato oralmente che ci viene offerto dalle mamme e dai papà, dai nonni e dagli zii quando siamo piccoli, e che riaffiora ogni tanto negli anni successivi, soprattutto nel momento in cui un profumo o un sapore ci riporta all’infanzia. Questo patrimonio non deve andare perduto e l’Eco, nel suo piccolo, prova a dare un piccolo contributo.      Tornano in mente quelle lontane serate invernali, accanto al caldo fuoco del camino, mentre fuori imperversavano il vento, il freddo e la pioggia. Ci tornano in mente quelle storie, quei racconti come "C’era ‘na vota ‘nu vecchie ‘ncoppa agliu monte, zitte, ca mò te la racconte!" che ci affascinava anche se non aveva una conclusione, o come "Zi’ Urticchie", personaggio della fantasia popolare protagonista della filastrocca che vi proponiamo nella versione rivisitata da A. Germani nel suo testo "Arrénneme gliu fazzelettone – Dizionario del dialetto di Colfelice, Arce e Roccadarce" del 1993. L’autore, nel presentare la filastrocca, illustra proprio l’ambiente della cucina, dove la famiglia era solita riunirsi non solo per mangiare, ma anche per scambiare quattro chiacchiere nelle giornate fredde e piovose. "Sul fuoco si cuocevano le uova, le salsicce, il formaggio, le sarache, che prendevano sapore impareggiabile. Si bruciavano le bucce delle arance e pareva che nell’aria fosse stato sparso un profumo. Non tutti potevano permettersi di avere il fuoco, nelle sere d’inverno, e c’erano famiglie che si recavano a chiedere ai vicini un po’ di brace per scaldarsi e cucinare. Il gruppo familiare sedeva sullo scanne (in Arce scagne) e appoggiava i piedi sul focherile per scaldarsi. Nelle case accadeva ciò che accade oggi davanti alla televisione, con la differenza che il video impone un passivo silenzio, mentre allora la conversazione, favorita dal mite e benefico chiarore, era sempre animata. Accanto al fuoco acceso i contadini evocavano cronache di briganti, di animali immaginari (Zì Urticchie) quasi al limite tra l'universo di rischi ignoti e la sicurezza del gruppo familiare. Il semplice bagliore delle fiamme del focolare domestico era un comune mezzo di illuminazione". Pensiamo che questa lunga citazione fotografi perfettamente l’ambiente in cui nascevano e si perpetuavano filastrocche come quella che pubblichiamo. Superfluo rammentare a tutti che una volta pubblicata sull’Eco, quella storia è destinata a restare nei secoli!     Zì Urticchie Séra i massèra ncuntrai la iatta nera, ieva carica de savecicce, le purtava a Zi Urticchie. Zi Urticchie nen ce steva, ce stevene tre zitelle. Stevene a’ ffà na frittatella, me ne dìttene n’uccòne, ch’eva bbona, ch’eva bbona! Me ne dìttene n’ate ‘ccòne Me scappà sotte agliu bancone; gliu bancone eva cupe, sotte ce steva gliu lupe; gliu lupe era vecchie, nen se sapeva refà gliu lette, gliu lette steva refatte, va gliu lupe e ce s’agguazza.   E passiamo ad una serie di ricordi personali, legati alla prima adolescenza, quando il Direttore ed i suoi amici Vincenzo e Ferdinando trascorrevano interi pomeriggi in bicicletta per le strade quasi tutte ancora non asfaltate, del circondario di Roccasecca. A quelle scampagnate, chiamiamole così, sono legati tanti aneddoti che andrebbero raccontati … a ricordarli tutti!. Ma non tutti sono rimasti limpidi nella memoria. Si sa, certe situazioni col passare degli anni vengono dimenticate, alle volte per sempre, in altri casi, invece, dopo che per anni sono rimaste nel dimenticatoio, possono riaffiorare all’improvviso, a causa di una chiacchierata, o anche solo di un profumo o di un suono che ci riporta un’immagine o una voce lontana. Perché quelle storie che si erano annidate da qualche parte nell’inconscio, in realtà non ci hanno mai abbandonato, e il segno che vi hanno inciso è talmente profondo, che quando il caso le riporta alla luce, esse affiorano e risvegliano in noi quelle intense emozioni vissute nell’infanzia.  Questo è proprio quanto ci è accaduto qualche anno fa, quando, percorrendo in macchina la strada che conduce da Pontecorvo a Roccasecca, a bassa velocità, per gustare le bellezze della campagna circostante, abbiamo rivisto alcuni luoghi, per anni dimenticati, che ci hanno riportato ad un pomeriggio di oltre quarant’anni fa.  Ed ecco che torna in tutta la sua chiarezza quell’evento! E ciascuno aggiunge un particolare sfuggito all’altro, ed insieme si mettono uno accanto all’altro i pezzi di un misterioso puzzle che a poco a poco, ma con grande entusiasmo, viene ricostruito integralmente. Era all’incirca metà degli anni ’60 d’estate, molto probabilmente a settembre, e stavamo percorrendo quella stessa strada in bicicletta; era pomeriggio inoltrato e non si sa quanti chilometri avevamo percorso e dovevamo essere veramente stanchi ed ancora abbastanza lontani dalle  nostre case su Via Piave, e così ci fermammo sotto l’ombra di un albero molto frondoso per riposarci un poco. Quasi materializzandosi dal nulla ecco apparire un vecchio che senza preamboli cominciò a parlare.  Ci raccontò alcune storie misteriose e affascinanti. Disse che l’albero da noi scelto come riparo dal caldo e dalla fatica, era la famigerata "Quercia dei sette soldati" e nascondeva una atroce leggenda. Una notte, durante l’ultima guerra, i soldati in questione si erano fermati a riposare proprio in quel luogo. Consumata velocemente una frugale cena con le poche vivande che avevano, si erano disposti a pulire le armi prima di abbandonarsi ad un sonno ristoratore dopo le fatiche di una lunga giornata. Per loro disgrazia furono colti così, all’ improvviso, dai nemici che li uccisero tutti e sette. Da allora, ogni notte, i fantasmi dei sette soldati si risvegliano sotto la quercia e ricominciano metodicamente, in silenzio, a ripulire i loro fucili, prima di scomparire di nuovo alle prime luci del giorno.  Anni dopo fu tramandato da nonna Concetta a Ferdinando un racconto molto simile, “Lo spirito del Tracciolino“ già pubblicato sull’Eco di Roccasecca 49 e che quindi qui riassumiamo brevemente, solo per continuità con l’aneddoto appena narrato. Il luogo in cui si svolge è il "tracciolino", ovvero “la strada tutta curve che costeggiando le Gole del Melfa, unisce Roccasecca a Casalvieri, la via più rapida per passare dalla Valle del Liri alla Val di Comino”. Verso la fine della seconda guerra mondiale, l'aviazione inglese annientò una colonna tedesca in ritirata, lasciando i cadaveri lungo la strada, come tanti soldatini di piombo.  Gli abitanti del luogo e gli sfollati di altri paesi si appropriarono successivamente degli stivali di quegli sventurati. Pochi anni dopo, un uomo si trovò a passare per quei luoghi, con un fucile a tracolla, presumibilmente diretto a caccia di qualche animale o uccello del posto. Ad un certo punto si sentì chiamare da un personaggio che gli chiese se aveva da accendere una sigaretta. L’uomo, senza far troppo caso all’altro, accese un fiammifero, ma il tentativo di accendere la sigaretta non ebbe successo. Allora ritentò e questa volta guardò fisso in viso l’altro, accorgendosi con stupore e raccapriccio, che questi era privo degli occhi, come uno scheletro, ed inoltre era vestito con una lacera uniforme della Wermacht!   Lo spavento fu tale che l’uomo imbracciò il fucile e lo scaricò sul "fantasma", il quale, colpito in pieno, esclamò:  "Accise i po’ raccise!", in perfetto dialetto roccaseccano!!!  Da qualunque regione tedesca provenisse il povero milite teutonico, sta di fatto che in quegli ultimi anni, vagando come spirito tra Roccasecca ed Atina, aveva evidentemente appreso una nuova lingua! O, più probabilmente, la frase in ciociaro proveniva soltanto dalla interpretazione data da nonna Concetta alla storia.  Ma noi preferiamo credere alla prima versione, altrimenti la situazione perderebbe tutto il suo fascino.   Ma è tempo di tornare al fantomatico anziano che aveva ormai attirato completamente la nostra attenzione. Eravamo ancora sbalorditi dal primo racconto, che il vecchio ci indicò un grosso msso bianco, a poca distanza, e, rispondendo ai nostri sguardi interrogativi, ci spiegò che era il "Sasso del fantasma", sul quale si accasciò un uomo colpito a morte dalla mano armata di coltello di un bandito che lo aveva assalito per derubarlo. Sulla pietra bianca e liscia, dopo più di un secolo, ancora sarebbero emerse le chiazze rosso scuro del sangue dell’ ucciso. Non solo, ogni anno, nella ricorrenza dell’assassinio, di notte si sentirebbero dei lamenti e dei flebili richiami di aiuto provenire dalle vicinanze del grosso sasso.   Nel frattempo si stava avvicinando la sera ed il sole calava dietro i monti, creando un’atmosfera, casomai ce ne fosse bisogno, ancora più tenebrosa. Facemmo presente al vecchio che dovevamo tornare a casa e cominciammo a risalire sulle nostre biciclette, non vedendo l’ora di andar via da quel luogo così tetro; ma lui prima di salutarci volle narrare una terza storia incredibile. Ci fece spostare per qualche decina di metri lungo la strada finché non giungemmo ad un bivio all’angolo del quale sorgeva una piccola vecchia casa in abbandono, non diroccata, ma quasi completamente circondata da vegetazione incolta e quasi totalmente ricoperta di edera selvatica. Era una casetta bassa, bianca di colore, ma ormai segnata dagli anni, con l’intonaco screpolato ed alcune tortuose crepe che sembravano ombre di una minacciosa ragnatela. La finestra che potevamo scorgere dalla strada era piccola, con una grata arrugginita al posto della persiana. Nell’insieme un’immagine sufficientemente tetra e misteriosa. Il misterioso personaggio la definì "La casa dello spettro", il cui abitante, non si sa se fosse uomo o donna, si faceva notare ogni tanto, in diversi modi, ovviamente sempre al calare delle tenebre: urla agghiaccianti (udite da più di un testimone attendibile, cioè non sensibile ai buoni bicchieri di vino), luci tremolanti visibili attraverso la finestrella con le sbarre che dava sul bivio, movimenti di persiane e cigolii provenienti dall’interno.   Sinceramente credemmo poco a questa storia che ci sembrava tratta da un libro di fantasmi dell’800, finché qualche tempo dopo, era autunno inoltrato, di sera, passando su quella strada, non vedemmo una luce che si muoveva all’interno della casa, proprio da quella finestra che ci era stata indicata. La casa era palesemente abbandonata e la porta non solo chiusa, ma per metà invasa da sterpi, edera e dai rami di un albero mai più potato. Vedere e fuggire di corsa fu inevitabile, e per lungo tempo non attraversammo più quel bivio "maledetto".    Ovviamente nessuno credette alla nostra storia, che rimase lì, nelle nostre menti per tornare, viva come allora, nel momento in cui ci trovammo a ripercorrere quella stessa strada. Non abbiamo più rivisto il vecchio narratore, il quale, nella nostra immaginazione, va ancora in giro, per le campagne, a raccontare le sue storie misteriose..., tra leggenda e verità, tra fiaba e realtà...   Per L’Eco di Roccasecca Reportage e memorie di Ferdinando Riccardo Vincenzo
Il Cavaliere, la Morte e il Diavolo Albrecht Durer,  1513
La fontana lungo il Tracciolino (foto Gianfranco Molle 2004)
Una delle stradine di cui si parla nei  nostri racconti in una foto di Gianni  Sarro del 2005
In un’altra eccellente foto di Gianni Sarro una casa diroccata simile a quella “dello spettro” narrata su queste pagine
Sito Promozionale di Cultura del Basso Lazio dell' Associazione onlus PRETA Via Sotto le mura snc - 03041 Alvito (FR) p.i. 02194120602 CIOCIARI.COM   © pretaonlus 2000-2010 - ciociari @ pretaonlus.it  L’Eco di Roccasecca Anno 19, n. 93		                                           Novembre 2014