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L’Eco di Roccasecca
La fame nel  cinema italiano seconda puntata    Iniziano gli anni cinquanta, la breve ed intensa parabola del Neorealismo si esaurisce, ma la semina è stata feconda e i risultati del raccolto sono generosi. Il cinema italiano s’avvia a conoscere la sua età dell’oro, da un lato crescono e si affermano registi come Fellini e Antonioni, dall’altro Risi e Monicelli, mentre tra gli sceneggiatori comincia ad apparire il nome di un giovane venuto dal sud, si chiama Ettore Scola e ne riparleremo a breve.  Il nostro viaggio cineculinario arriva al 1958, anno in cui esce un altro capolavoro I soliti ignoti, diretto Mario Monicelli; al suo attivo ha già un bel numero di film, alcuni di ottima fattura come Totò e Carolina, del 1955.    Il nostro cinema ha inaugurato quel fortunato filone che Lino Miccichè ha brillantemente definito come Commedia all’italiana, genere contenuto nel macrogenere della Commedia, le cui caratteristiche sono quelle di avere un’accentuata attenzione verso le problematiche sociali declinate in una comicità a volte così aspra e corrosiva, da risultare più efficace di tanti pensosi pamphlet. Il Belpaese ritratto nella prima Commedia all’italiana è ancora segnato dagli sconci della guerra e del ventennio fascista, si vive un po’ meglio dell’immediato dopoguerra, ma la miseria è ancora tanta, e la fame anche. In questo senso I soliti ignoti è un film ponte, che unisce due Italie, quella dell’immediato secondo dopoguerra, rurale, povera, profondamente analfabeta, con quella sull’orlo dell’effimero boom degli anni 60. Emigrazione interna e tv hanno in un modo o nell’altro amalgamato gli italiani. Comincia a diffondersi un tenue benessere, ma si palesano anche contraddizioni sociali che esploderanno da lì a poco. Il film di Monicelli va ricordato anche per la consacrazione di quello che è uno dei più grandi attori di teatro del momento, ma che col cinema non ha ancora instaurato un grande feeling, Vittorio Gassman. Tuttavia la maschera che c’interessa di più è quella del napoletano Capannelle con la sua fame atavica ci racconta che l’Italia è abitata da sacche di povertà dove il riempire la pancia è ancora il primo problema. Capannelle ha sempre fame, come vediamo nella scena corale dove Mastroianni ha in braccio il figlioletto e Capannelle sgraffigna qualche biscotto dell’infante. Comico, sicuramente, ma anche graffiante, nel suo affermare che il primordiale bisogno di mangiare è tutt’altro che sotto controllo. Il momento clou il film lo raggiunge nell’indimenticabile finale. La scalcinata banda di ladri (tra gli interpreti a far compagnia a Gassman e Capannelle troviamo Marcello Mastroianni, Renato Salvatori, Tiberio Murgia e Totò) decide di rapinare un Monte di Pietà, la cui sede confina con un appartamento.     I ladri finiscono per rubare pasta e ceci!  Architettano il colpo in ogni minimo dettaglio, forano la parete di un appartamento vuoto che confina con la cassaforte, ma si ritrovano nella cucina dello stesso appartamento. La rapina è andata male, ma il gruppo di scalcinati ed inadeguati ladruncoli può almeno consolarsi con un piatto di pasta e ceci. La scena è costruita magistralmente da Monicelli, il gruppo di scassinatori capitanato da Gassman è riunito in una stanza e ha costruito un complicato marchingegno per abbattere la parete che li divide dalla cassaforte. Quando il climax raggiunge l’apice Peppe er pantera (Gassman) chiede a Capannelle di andargli a prendere un bicchiere d’acqua. Passano alcuni secondi, la parete crolla e cosa vediamo? Capennelle in cucina, i nostri hanno buttato giù la parete sbagliata. Ma l’aspetto che ci interessa di più è quello che vede chi altri se non l’affamato cronico Capannelle nel tempio del cibo, ossia la cucina.   Tre anni dopo, è il 1961, esce Il sorpasso; Risi mette in scena un’Italietta spensierata e cicaleggiante, quella dell’effimero boom dei primi anni sessanta che ha il volto bello e sfrontato di Vittorio Gassman. Risi incanaglisce la maschera comica che Monicelli aveva costruito per il Mattatore ne I Soliti Ignoti: più che velleitario ed ingenuo qui Gassman è cinico, furbastro, affabulatore. Tra gli sceneggiatori del capolavoro risiano troviamo Ettore Scola. L’Italia ha raggiunto il benessere, il film è ambientato nel giorno di Ferragosto, giorno di festa deputato allo svago e all’abbuffata. Nell’itinerario (non dimentichiamo che Il sorpasso è un road-movie) che compiono i due protagonisti (Trinignat affianca Gassman) trattorie, picnic, feste campagnole, banchetti in spiaggia, fanno da fil-rouge. Tuttavia Bruno e Roberto sembrano destinati a non riuscire a mangiare, vuoi perché un ristorante è chiuso, vuoi perché un altro è pieno, la loro ricerca sembra destinata a rimanere frustrata.    Il pranzo a Civitavecchia  I due occasionali amici arrivano così a Civitavecchia dove finalmente soddisfano i loro palati. La scena del pranzo è ambientata in due spazi, la cucina dove l’inarrestabile Bruno s’introduce a portare scompiglio e poi nella terrazza dove ci sono i tavoli. Il pranzo è servito sotto forma di un’appetitosa zuppa di pesce, ma il cibo nel momento in cui è stato raggiunto sembra perdere l’importanza che aveva nei primi tre film che abbiamo analizzato. Infatti i due protagonisti siedono al tavolo distratti, Gassman alterna un boccone ad una boccata di sigaretta, mentre vagheggia una breve avventura con la cameriera del ristorante.   Tritignant sbocconcella il suo piatto svogliatamente, mentre è perso dietro pensieri crepuscolari. Un atteggiamento impensabile per Pina in Roma città aperta, per il piccolo Bruno in Ladri di biciclette, per Capannelle in I soliti ignoti, che avevano per il cibo un rispetto ai limiti della venerazione, davanti al pane, alla mozzarella in carrozza o alla pasta e fagioli non c’era spazio per nient’altro, per nessuno.    Arriviamo finalmente al 1974 e ad Ettore Scola; è lui a dirigere C’eravamo tanto amati, film cardine del nostro cinema, perché narra trent’anni di storia italiana, tracciando, non a caso, lo stesso arco di Roma città aperta, Ladri di biciclette, I soliti ignoti, Il sorpasso. Il film di Scola è un film di Storia e di storie, con una struttura complessa, dove si mescolano, flashback, flashforward, fantasie ad occhi aperti, materiali di cinegiornali, rappresentazione teatrale. Avviene una contaminazione tra dramma e commedia, parodia e denuncia sociale. Questa contaminazione, secondo Lino Micciché, avviene perché negli anni 70 il cinema non si può più limitare a mostrare il reale, come avveniva nel Neorealismo, perché mostrare non basta e non significa più far capire la realtà complessa della società del dopo boom economico.  Il film di Scola schiera un parterre de roi dove insieme a Vittorio Gassman, Nino Manfredi, Stefania Sandrelli, Stefano Satta Flores spicca Aldo Fabrizi, in una delle più belle interpretazioni della sua carriera. Fabrizi con i personaggi di Don Pietro (Roma città aperta) e di Romolo Catenacci (C’eravamo tanto amati) rappresenta il mutamento dei tempi, tra il dopoguerra e gli anni 70.   Don Pietro è il simbolo delle speranze, per un futuro migliore, e non esita a subire il martirio, simbolicamente uguale a quello di Gesù, per il bene dell’umanità. Viceversa Romolo Catenacci rappresenta i 30 anni che sono passati dal 1945, le speranze che sono naufragate. Il corpaccione gargantuesco del palazzinaro/pescecane è l’emblema del disfacimento e dell’autoindulgenza dell’Italia degli anni 70. Essendo un film che segue una traiettoria di trent’anni C’eravamo tanto amati ribadisce l’itinerario culinario che abbiamo visto nei film precedenti. Nelle sequenze iniziali, ambientate nell’immediato dopoguerra a Roma, Gassman, Manfredi e Satta Flores, mangiano tutti i giorni in ristorante conosciuto come il “Re della mezza porzione”, metafora che ci ricorda padre e figlio in Roma città aperta.    Gli amici in trattoria vanno a “rigatoni”  Man mano che C’eravamo tanto amati va avanti i pranzi diventano più ricchi ed abbondanti, fino ad arrivare a quella scena di gargantuesca opulenza dove Fabrizi, in uno dei suoi cantieri, presenzia all’arrivo di una gigantesca porchetta, depositata sul lungo tavolo allestito per il pranzo da una gru, mentre da alcuni altoparlanti vengono diffuse le note dell’inno di Mameli.  Dunque alla fine di questo gioco cineculinario, il cibo non è più una necessità, ma assurge a simbolo, ad idolo da glorificare, a discapito di ideali sotterrati da trent’anni nei quali sono scoppiate laceranti contraddizioni sociali che hanno trasformato i sogni in incubi.  Gianni  Sarro
Anno 20, n. 98                                            Dicembre 2015
Gianni Sarro