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L’Eco di Roccasecca
Lasciapassare Quando gli emigranti eravamo noi
Anno 20, n. 98                                            Dicembre 2015
Renzo Marcuz
Uno dei miei primi viaggi in treno, ma di quelli lunghi, fu quello che feci con mio padre all'età di sette anni per andare a trovare i nonni emigrati in Francia.  Era un posto lontano, talmente lontano che per arrivarci non bastava attraversare più di mezza Italia ed uscire dai confini. Bisognava superare anche tutta la Svizzera e la Francia e solo allora eri arrivato. Il treno era partito velocemente da Roccasecca, dove all'epoca vivevo con i miei genitori, e quando arrivammo a Roma Termini, per prenderne un altro treno che subito si riempì di gente, era ormai notte. Papà prese in affitto un cuscino da uno di quei carrettini che giravano vicino ai treni notturni e così avrei potuto dormire meglio.  Poi, lentamente, anche quest'altro treno partì e lo capii dalle colonne della stazione che avevano iniziato a muoversi, prima piano poi sempre più veloci. Mi piaceva, come al solito, stare col naso incollato al finestrino a guardare fuori e ad osservare le case e gli alberi che si muovevano, anche loro prima piano poi sempre più veloci. Lo facevo ogni volta che salivo su di un treno. Se era notte allora non si vedeva più nulla, solo il riflesso delle altre persone sedute nello scompartimento e che mi mettevo ad osservare finché non se ne accorgevano. Quando anche loro mi guardavano allora abbassavo gli occhi o li chiudevo. Se era notte e pioveva allora mi mettevo a guardare le gocce di pioggia che rimanevano attaccate all'esterno del finestrino e le seguivo finché non iniziavano a scendere.  Scendevano piano, quasi che non ce 1a facessero, poi incontravano un'altra goccia e prendevano forza e scendevano più veloci facendo una linea strana, come la vena del braccio di un adulto, o di un vecchio. Poi la goccia continuava disegnando altre linee e diventava ancora più veloce finché non arrivava alla fine e mi lasciava. Allora cominciavo a guardarne un'altra e poi un'altra e poi un'altra ancora fino a che la pioggia non finiva. Quella sera cenammo con le cose che mamma ci aveva preparato poi, dopo che qualcuno si era presentato ed aveva iniziato a parlare e qualcun altro era andato a fumare nel corridoio, papà spense le luci centrali dello scompartimento per poter riposare. Prima di addormentarmi pensai a mamma che stava sola a Roccasecca ed ero contento solo per il fatto che la vacanza dai nonni sarebbe durata poco e che presto saremmo tornati a casa e saremmo stati tutti di nuovo insieme. La notte trascorse velocemente come qualche volta accade quando si viaggia in treno e non mi accorsi di nulla fino a dopo che fu passata la stazione di Milano, quando mi svegliai. Era una mattinata serena l'aria fuori era anche un po' fredda ma a noi non importava molto perché eravamo nel tepore del nostro scompartimento e chiacchieravamo tranquilli con gli altri viaggiatori come vecchi amici. Avevamo anche fatto colazione scambiandoci le cose che ci eravamo portati e come era buona creanza fare a quei tempi durante i lunghi viaggi in treno. Specie se in seconda classe ed ancora di più se i treni venivano dal Sud. Tutto, purtroppo, finì a Chiasso quando entrarono nello scompartimento i poliziotti della dogana che chiedevano i documenti ed anche se qualcuno avesse qualcosa da dichiarare. Si sentivano arrivare da lontano, prima ancora che comparissero, perché battevano qualcosa di metallico contro gli stipiti delle porte per richiamare l'attenzione delle persone, o per intimidirle, per lo meno a me così pareva. Allora i viaggiatori abbassavano la voce e preparavano i documenti aspettando che entrassero e la sensazione era che tutti avessero qualcosa da nascondere, specialmente quando i poliziotti chiedevano di aprire una valigia. Quando si presentarono nel nostro scompartimento andò tutto bene finché non controllarono i documenti che aveva papà, poiché il poliziotto che lo stava facendo uscì ed andò a chiamare un altro. "Qui c'è qualcosa che non va. Questi documenti non sono buoni. " dissero a mio padre "Dovete venire con noi ". Le persone dello scompartimento ci salutarono un po' dispiaciute anche perché avevamo fatto amicizia e condiviso il cibo. Ci guardarono scendere dal treno, papà con quella valigia pesantissima che lo faceva camminare un po' piegato da un lato, io con il cuscino sotto al braccio che camminavo vicino a lui sforzandomi di non piangere. Poi il treno partì e rimanemmo soli con i poliziotti in quella fredda mattina d'estate nella stazione di Chiasso. Ci portarono in macchina, per accertamenti, a Pontechiasso in una palazzina bianca che si stagliava contro il cielo su di una collinetta isolata nel verde. Salimmo anche delle scale e quella mattina sembrava non si dovesse fare altro che salire, papà con quella valigia troppo grande e pesante ed io col mio cuscino sotto al braccio.                             … ed io col mio cuscino sotto al braccio  Quando entrammo in quella che sembrava la sala più grande e importante di tutta la palazzina c'erano quattro o cinque poliziotti in divisa dietro ad una scrivania e sembravano molto agitati. Papà gli aveva spiegato che i documenti erano buoni perché gli erano stati dati in base ad una nuova regola che era uscita proprio in quei giorni e gli pareva strano che a Chiasso ancora non la conoscessero. "Lasciapassare " si chiamavano quei documenti e, per alcune situazioni, potevano sostituire i passaporti. Sembrava, però, che papà fosse l'unico a saperlo, oltre a quelli che avevano fatto quella nuova regola. Quei poliziotti continuarono ad agitarsi ed a telefonare finché, dopo un'ultima chiamata a Roma, finalmente capirono ed iniziarono a sorridere. Si scusarono con papà che aveva ragione, mi offrirono delle caramelle e ci riaccompagnarono alla stazione in macchina scusandosi di nuovo, ma ormai la frittata era fatta. Il treno che prendemmo per continuare il viaggio era diverso da quello partito da Roma. Non c'era quasi nessuno, solo un paio di signorine della Svizzera italiana che dopo un poco iniziarono a parlare con noi. Con loro papà chiacchierò molto, mentre traversavamo la Svizzera, e quando ad una venne voglia di dormire lui le diede subito il mio cuscino, affermando che tanto io ero sveglio e quindi non mi serviva.    Erano ragazze belle e disinvolte di una ventina d'anni, con i capelli lisci e lucidi e gli occhi grandi, tipo Catherine Spaak.  Papà era rilassato e contento, forse si era già dimenticato di Chiasso e Pontechiasso, parlava e fumava con una di loro nel corridoio ed ogni tanto ridevano mentre io ero rimasto nello scompartimento dove l'altra dormiva sul mio cuscino, ma non me ne importava.   Ti credo che papà era rilassato e contento!  Col naso incollato al vetro del finestrino guardavo, incantato, la Svizzera che si muoveva davanti a me. Aveva bellissime montagne verdi con cascate altissime come non avevo mai visto, era costellata di laghi e di paesini da fiaba. Ovunque bandiere rosse con una croce bianca al centro, sventolanti tutte. Fu un viaggio lunghissimo con diversi cambi e che durò tutto il giorno finché, a notte ormai inoltrata, arrivammo in un posto strano, vicino al confine con i1 Belgio, dove ci aspettava nonno Luigi che, in qualche modo, doveva essere stato avvisato del ritardo. Qui attendemmo qualche ora prima di prendere l'ultimo treno, quello che ci avrebbe portato a Creutzwald (Creutzwald la Croix, era il nome completo di quel paesino lontano della Mosella dove i nonni a quel tempo abitavano). Era, quest’ultimo, un treno come non ne avevo mai visti prima e come non ne avrei mai più visti neanche dopo: una tradotta per i minatori che dovevano andare anche loro a Creutzwald, o in qualche paese vicino, per fare il loro turno di lavoro sotto terra.    Le poche carrozze, tutte di legno tutte con le luci spente, si riempirono rapidamente di questi uomini vestiti di nero che stavano seduti diritti, e in silenzio, su quelle panche scomode. Sembravano svegli mentre invece dormivano tutti. Finalmente, poco prima dell'alba, arrivammo a destino e quasi tutti gli altri scesero dal treno con noi dato che il paese era famoso soprattutto per le miniere di carbone vi si trovavano. Per arrivare a casa, però, dovevamo ancora percorrere una strada lunga e solitaria poiché la stazione era lontana, molto fuori dal paese. Dovemmo così attraversare anche il bosco, un bosco di conifere talmente fitte che la luce dell'alba faceva fatica a filtrare fino a terra e percorremmo un sentiero stretto, coperto da una spessa coltre d'aghi, che passava vicino a laghetti silenziosi dove le anatre selvatiche ed altri uccelli si stavano svegliando proprio in quei momenti. Alla fine riuscimmo ad arrivare a casa, un edificio antico ed un po' tetro in stile tedesco, posto su di una collinetta sovrastante il centro del paese e dove mia nonna, che viveva lì, ci aspettava con i proprietari. I padroni di casa erano una coppia senza figli: lui un Alsaziano grande, grosso e con i baffi spioventi, piuttosto anziano e con l'espressione un po' burbera, non aveva mai imparato il francese. Anche lei era Alsaziana, bionda e con grandi occhi celesti era molto più giovane e sempre sorridente. Oltre al tedesco sapeva parlar bene anche il francese e ci preparò una colazione abbondante nella prima mattina di quiete dopo quel viaggio così estenuante.  Subito dopo ci fecero andare a riposare perché si vedeva che eravamo provati. La Signora bionda baciò papà ed anche me, e alla fine mi rimboccò le coperte dopo avermi tolto, delicatamente, il cuscino che mi ero portato da Roma.    Renzo Marcuz 2 febbraio 2012
Nonno Gigi e nonna Emilia, quand’erano in Francia